Perchè Musica delle Sfere?

Devo all'affascinante teoria pitagorica l'ispirazione del titolo di questo blog. Secondo il filosofo di Samo, il movimento dei corpi celesti è regolato da leggi geometriche, risultando perciò armonico e perfetto. Muovendosi, gli astri emettono una musica sublime e celestiale, definita "armonia delle sfere", che l'orecchio umano non può percepire a causa dell'assuefazione, un fenomeno psicologico che rende inavvertito alla coscienza un suono continuo. Il richiamo alla sapienza antica vuole essere il punto di partenza di un diario online che propone una riflessione, e se vorrete un dibattito costruttivo, su eventi significativi per il percorso storico e umano. La mia ambizione è mettere a disposizione uno spazio dove ogni fatto che ci riguardi possa essere analizzato sotto la lente delle scienze dell'uomo.



giovedì 20 dicembre 2012

LA MASCHERA O VELO INGANNATORE DEL MONDO - SUGGESTIONE SCHOPENHAUERIANA


Sensazione di mistero e di oscurità. Velo sottile ed enigmatico. Barriera di confine tra il conosciuto e l’arcano. Da sempre la maschera ha esercitato un indubbio fascino nell’immaginario collettivo, assurgendo sin dall’antichità a simbolo assoluto dell’ignoto. Non a caso il suo utilizzo risale alla preistoria. Un tempo antico, quasi impalpabile, a partire dal quale la maschera è divenuta strumento irrinunciabile e protagonista di rituali religiosi, rappresentazioni teatrali e infine feste popolari. Medium di comunicazione tra l’uomo e la divinità, simbolo associato al culto degli antenati, espediente per mettersi in contatto con entità soprannaturali. La sua straordinaria energia metaforica non poteva non ispirare il genio umano che, sin dalle prime espressioni artistiche, ha saputo farne uso nelle più disparate rappresentazioni.
 
 
 
 
 

 Topos ricorrente nell’arte, nella letteratura, nella poesia, nel cinema, nel teatro, la maschera è sempre stata fortemente radicata nel pensiero umano, tanto che la filosofia l’ha utilizzata come chiave per l’accesso a verità altrimenti astruse e inintelligibili. L’esempio più suggestivo ce lo dà la riflessione filosofica di Arthur Schopenhauer. Già il titolo della sua opera più nota, Il mondo come volontà e rappresentazione, reca in sé forti suggestioni metaforiche. La rappresentazione è un’allusione al palcoscenico, alla maschera, alla finzione. “Il mondo è una mia rappresentazione: ecco una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, anche se l’uomo soltanto è capace di accoglierla nella sua coscienza riflessa e astratta: e quando egli fa veramente questo, la meditazione filosofica è penetrata in lui. Diventa allora per lui chiaro e certo che egli non conosce né il Sole, né la terra, ma sempre soltanto un occhio, che vede un Sole, una mano, che sente una terra; che il mondo, che lo circonda, non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre  e soltanto in rapporto a un altro, a colui che lo rappresenta, il quale è lui stesso”. Queste le parole del filosofo all’inizio del suo libro più illustre. Una sintesi del messaggio di verità che il suo lavoro vuole svelare. Una verità dal sapore antico, che ha attraversato l’intero cammino filosofico fino all’epoca contemporanea: nessun uomo è in grado di uscire da se stesso e vedere la realtà per ciò che è veramente, nella sua essenza.
 
Il mondo è mera rappresentazione determinata unicamente dagli schemi mentali dell’individuo: spazio, tempo e rapporto di causa-effetto, in modo simile all’universo kantiano. La realtà  ci appare stabile e indipendente ma non è altro che una configurazione di rappresentazioni mentali: “…Tutto quanto appartiene e può appartenere al mondo ha inevitabilmente per condizione il soggetto ed esiste solo per il soggetto. Il mondo è rappresentazione”. Il fenomeno, infatti, è, per definizione, illusione e apparenza, è ciò che la filosofia indiana chiamava “velo di Maya”, ossia una maschera che copre  il volto reale del mondo. Il passo che riprende dagli antichi testi dei Veda e dei Purana è assai suggestivo: “E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista , né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente”. Come la citazione platonica “gli uomini non vivono che in un sogno”. O la romantica digressione shakespeariana “noi siamo di tale stoffa, come quella di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è chiusa in un sonno”. E, infine, l’intuizione di Schopenhauer. Un lampo geniale, un’immagine che sa di opera d’arte: il filosofo assimila le forme a priori, mediante cui conosciamo il mondo esterno (spazio, tempo, causalità), a dei vetri sfaccettati che deformano la nostra visione delle cose e  rendono il mondo esterno pura fantasmagoria. Una realtà irreale, un impalpabile ossimoro che si traveste da sogno. Così, nell’apparenza fenomenica sembra indistinguibile il sogno dalla veglia, le illusioni oniriche dalle percezioni quotidiane: “Sarà concesso anche a me di esprimermi con una similitudine: la vita e il sogno sono le pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama la vita reale ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) è terminata e giunge il tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora pigramente, senza ordine e connessione, a sfogliare ora qua ora là una pagina già letta, ora una ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro…”. Al di là della maschera onirica, però, si nasconde la vera realtà che Schopenhauer, a differenza di Kant, ritiene possibile raggiungere e afferrare. L’uomo, infatti, non è solo conoscenza e intelletto, l’uomo è soprattutto “volontà di vivere”, un impulso fortissimo che ci spinge ad agire e a esistere. E’ la radice e l’essenza del mondo. Ecco, questa brama irresistibile fa cadere la maschera e squarcia il “velo di Maya” che cela il luogo dell’essere autentico.

Essenza segreta del genere umano e dell’intero universo, la volontà di vivere è la soluzione dell’enigma, la chiave per accedere al regno dell’assoluto. Essa svela l’arcano e l’identità della realtà. La maschera cade, il mistero si dissolve, l’universo ci mostra il suo volto. Ecco la verità in tutta la sua pienezza, senza finzioni e artefatti.


 

 Foto di Antonello Del Raso
http://www.fotografart.org


sabato 1 settembre 2012

IL MODELLO UMANISTICO DEL SAPERE

La storica Riforma dell'Istruzione del 1923, ideata da Giovanni Gentile, per conto del governo Mussolini era animata dalla profonda convinzione di ripristinare l'insegnamento umanistico come colonna portante dell'intero sistema educativo. Infatti, la sua riforma toccò soprattutto la scuola superiore in cui il ginnasio-liceo avrebbe dovuto primeggiare, quale formazione elitaria destinata a preparare la futura classe dirigente italiana.

L'importanza della cultura umanistica poco più tardi, negli anni Trenta, venne ribadita da un movimento pedagogico sorto nell'ambito dell'Università di Chicago per opera di Hutchins, rettore dello stesso ateneo. Il movimento era imperniato sul programma dell'educazione liberale che si richiamava alla tradizione e ai valori dei classici.
L'educazione, secondo Hutchins, è compimento della libertà interiore, progressiva liberazione attraverso il sapere e la cultura, sulla base dell'insegnamento aristotelico per il quale la virtù e la felicità dell'uomo collimano con la vita teoretica. Egli riteneva che l'educazione fondata sulla coltivazione delle virtù intellettuali fosse "la migliore educazione che si possa avere". Di qui la tesi dell'unità della cultura da realizzarsi attraverso la lettura delle grandi opere prodotte dall'umanità, quei libri che sono diventati "classici" e che, essendo l'espressione dell'immenso patrimonio condiviso dalla nostra civiltà, possono darci il senso profondo della nostra umanità.

Jacques Maritain, pedagogista cattolico, si inserì in questo clima con l'opera Educazione al bivio (1932). Il bivio epocale cui si trova l'educazione riguarda il suo stesso fine. Da un lato, integrazione dell'individuo nella vita sociale, dall'altro formazione dell'uomo nella sua interezza, come sintesi di anima e corpo, natura e spirito. Il filosofo francese ritiene che quest'ultima sia la vera missione dell'educazione dal cui ambito occorre eliminare ogni forma di pragmatismo, sociologismo, intellettualismo. La sua proposta è un nuovo curriculum formativo imperniato sulle "sette colonne portanti del sapere: le discipline del trivio e del quadrivio, rielaborate in chiave moderna. Il senso del suo modello pedagogico non è un mero richiamo nostalgico ai valori del passato ma la necessità profonda di ristabilire una chiara gerarchia di valori in campo educativo, che possa contribuire alla conoscenza della verità.

sabato 21 aprile 2012

IL MONDO 3: I PENSIERI E LE IDEE DELL'UOMO

Ritorna nella nostra epoca l’incanto della teoria platonica. In tutta la sua forza, in tutta la sua suggestione. Un fascino senza tempo, perché il frutto del genio umano non sa mai di antico, esso è sempre attuale, come una bella favola che si perpetua di generazione in generazione.
Il mondo delle idee, questo “luogo al di là del cielo” dove risiederebbero gli esemplari perfetti ed eterni delle cose, la sede della sostanza e dell’essere, si riaffaccia nella teoria di Karl Popper, nell’ultima fase del suo pensiero. Popper muore a Londra nel 1994, siamo, dunque, alle soglie del nuovo millennio, e l’ultimo sviluppo del suo sistema è un esito realistico e oggettivistico coronato dalla suggestiva teoria dei tre mondi.

Il filosofo parla dell’esistenza di tre “dimensioni”:
il Mondo 1 è il mondo delle entità fisiche;
il Mondo 2 è il mondo delle nostre esperienze soggettive, ossia dei nostri pensieri, delle nostre speranze e paure;
il Mondo 3 è fatto dei prodotti dei nostri pensieri, speranze e paure, cioè è fatto dei prodotti del Mondo 2 (che è il mondo dell’animo umano e della mente).

Il terzo mondo è “del tutto indipendente sia dall’uomo sia dal tempo”. Di qui l’affinità con il mondo delle idee platonico. C’è, però, una fondamentale differenza che rende originale la concezione di Popper ed è il carattere essenzialmente storico e umano del Mondo 3. Il Mondo tre è il mondo dei pensieri e delle opere create dall’uomo. “Il Mondo 3 ha una storia. E’ la storia delle nostre idee: non solo una storia della nostra scoperta, ma anche una storia di come le abbiamo create, e come esse abbiano reagito su di noi, e come noi abbiamo reagito a questi prodotti della nostra stessa opera. Questo modo di considerare il mondo 3 ci permette anche di inscriverlo nell’ambito di una storia evoluzionistica che riguarda l’uomo come animale”.

giovedì 19 aprile 2012

IL NAUFRAGIO DELL'ILLUSIONE METAFISICA

La mente dell’uomo oscilla perennemente tra il limite e l’illimitato, tra la consapevolezza della propria finitudine e le smanie di onnipotenza. Pur avvertendo, infatti, l’esistenza di confini invalicabili che mai potrà oltrepassare, essa è portata a spingere le ali della fantasia sempre più in alto o a interrogarsi su problemi che l’umana comprensione sembra non poter abbracciare. Sì, perché il nostro intelletto è irresistibilmente attratto dall’ignoto e abbandona spesso il mondo fenomenico e limitato per spaziare verso i confini dell’assoluto e dell’incondizionato, salvo poi rendersi conto dell’impossibilità di raggiungere spiegazioni soddisfacenti.

Suggestiva la metafora costruita da Kant nella Critica della ragion pura che assimila l’intelletto umano a una colomba che si libra in volo lamentandosi però degli impedimenti dell’aria e sogna di poter volare anche senza di essa, non rendendosi conto però che l’aria costituisce sì una resistenza al suo volo ma ne è anche la condizione essenziale. Senza di essa, infatti, cadrebbe a terra. Esattamente come l’uomo ripiomba violentemente nella dura realtà quando si avventura nei meandri insolubili delle questioni metafisiche su cui la scienza può avanzare solo deboli ipotesi.

Siamo davvero condannati a urtare contro un muro insormontabile, rappresentato da quelle che Karl Jaspers chiama “situazioni limite”, oppure esiste la possibilità concreta di attingere a una conoscenza assoluta?
C'è da dire che le capacità scientifiche appaiono sconfinate. La ricerca ha fornito risposte che fino a qualche tempo fa sembravano inimmaginabili. E il progresso, in ogni campo dello scibile, è sempre più dilagante e sorprendente. Tuttavia, ci sono degli interrogativi a cui l’uomo, sin dalla sua comparsa sulla Terra, ha cercato di dare risposta, senza mai approdare a una certezza assoluta. Dubbi ancestrali che tormentano il nostro essere. Dilemmi senza fine, ermetici e insolubili. Ritorna, così, la scissione apparentemente non ricomponibile tra il mondo fenomenico, che la scienza può analizzare, e l’extrafenomenico, inconoscibile e sfuggente. E, a questo proposito, assai affascinante è la metafora kantiana che assimila la scienza alla terraferma di un’isola e l’ambizione dello scienziato di spingersi oltre l’esperibile al desiderio del navigante di andare alla ricerca infinita di nuovi mondi: “questo territorio è un’isola che la natura ha racchiuso in confini immutabili. E’ il territorio della verità (nome seducente), circondata da un ampio e tempestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la parvenza (l’illusione metafisica), dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiacci creano ad ogni istante l’illusione di nuove terre e, generando sempre nuove ingannevoli speranze nel navigante che si aggira avido di nuove scoperte, lo sviano in avventurose imprese che non potrà né condurre a buon fine né abbandonare una volta per sempre”.

martedì 17 aprile 2012

PERVERSIONI DELLA MENTALITA' DI GRUPPO: L'ERRORE DI KENNEDY

Da sempre la coesione viene percepita come un elemento positivo all’interno di un gruppo. Un gruppo coeso è straordinariamente produttivo e in grado di affrontare le difficoltà con maggiore possibilità di successo. I singoli membri si sentono molto sicuri, hanno una forte autostima e un maggiore equilibrio, perché sanno di poter contare gli uni sugli altri e di costituire un unico organismo vivente. Non tutti sanno, però, che un elevato livello di coesione potrebbe rivelarsi controproducente e avere effetti deleteri per la stessa vita del gruppo. Si potrebbe, ad esempio, registrare un calo vertiginoso del rendimento, conseguenza psicologica di quella condizione definita “beata improduttività”: un eccessivo benessere del gruppo porta a un calo nel raggiungimento degli obiettivi perché le persone “si cullano”, per così dire, nell’idea di lavorare insieme e traggono forza dal sostenersi a vicenda.

L’effetto più pericoloso della coesione è, però, la “mentalità di gruppo”, ossia un pensiero largamente condiviso e resistente alle critiche, che si autoconvalida facendo leva sul consenso interno. Un pensiero di questo tipo perde facilmente di vista l’obiettività e può dar luogo a scelte disastrose. La storia ci regala diversi esempi di decisioni importanti, prese in ambito politico e militare, clamorosamente infelici. E’ stato Irving Janis, alla fine degli anni Sessanta, a studiare questo “effetto perverso” della coesione esaminando una serie di decisioni rivelatesi fallimentari. Famoso il caso dell’invasione della Baia dei Porci nel 1961. L’allora Presidente degli Stati Uniti John Kennedy decise, consigliato dai suoi uomini, di far sbarcare 2 000 esuli cubani anticastristi a Cuba sotto l’appoggio americano. Una decisione che a chiunque dall’esterno parve assurda e sconsiderata. L’esito negativo era insomma facilmente prevedibile anche dai meno esperti. Gli invasori, infatti, vennero catturati e uccisi.

La scelta si rivelò disastrosa nonostante fosse stata presa da persone di estrema competenza e tutt’altro che incapaci. Perché ciò accadde? Perché persone di grande intelligenza e indubbia esperienza furono vittime di un abbaglio così clamoroso? Secondo lo studio di Janis, fatale, per Kennedy e i suoi consiglieri, fu il fatto di decidere collettivamente. In un gruppo caratterizzato da un’elevata coesione è difficile che possano sorgere discussioni proprio perché i membri tendono a vedere le cose allo stesso modo e hanno un’intesa perfetta. Non c’è dunque scambio di opinioni e manca la critica, che è il sale di ogni sano confronto. Proprio l’indebolimento del senso critico portò Kennedy  e i suoi uomini a perdere di vista l’obiettività e a credere eccessivamente nelle possibilità di successo di un’impresa ambiziosa.

domenica 15 aprile 2012

ANCORA FERMO IL CUORE DEL CALCIO


L’ennesimo addio a un giovane protagonista dello sport italiano. Fa male dover salutare così un ragazzo. Improvvisamente e crudelmente. Senza un motivo. Senza risposte. Sì, perché la vita sembra non dover mai finire, soprattutto per uno sportivo, incarnazione ed emblema della forza fisica e della salute. Tanti i campioni che ci sono stati strappati via. E con loro se ne sono andate le imprese, che sarebbero potute essere e che non sono state, oppure i ricordi di un tempo, gesta memorabili e firme da eroe, che indelebili sopravvivono nel cuore di chi le ha vissute. Questa una citazione di Eschilo di Eleusi, poeta greco: “Tutto quanto il futuro io conosco perfettamente fin d'ora, né mi giungerà inatteso alcun dolore. Bisogna sopportare il meglio possibile la porzione di sorte che ci è assegnata, sapendo che invincibile è la forza della necessità”. Parole sagge, sapienza sconfinata. Ma è così difficile accettare la decisione del fato. Dura è accettare la sconfitta, quando a perdere è un ragazzo di neanche 26 anni. Il dramma di Piermario Morosini, giocatore del Livorno morto ieri pomeriggio all’ospedale di Pescara dopo il malore avvertito durante la gara della sua squadra con il club abruzzese, è solo l’ultimo di una lista di morti improvvise in campo: dal '69 a oggi, Taccola, Curi, Ceccotti, Calonaci, Greco. In campo internazionale, negli ultimi anni: Foè, Serginho, Puerta, O’Donnell, King, Jarque, Wleh, Idahor Opoku, Matsuda, Elejiko, Venkatesh. Questo per quanto riguarda il calcio. Ma non dimentichiamo la recente scomparsa di Bovolenta, il pallavolista stroncato da un malore durante una partita di B2 con la sua Volley Forlì.

Le cronache calcistiche, dal 1889 ad oggi, documentano ben 88 casi di ragazzi morti in campo o negli spogliatoi per arresti cardiaci. Scomparse in certi casi simili, in altre diverse, ma in ogni caso accomunate dal triste binomio calcio-morte. E non scordiamo gli sportivi deceduti a seguito di malattie: Fulvio Bernardini, morto nel 1984 per il morbo di Gehrig, e Andrea Fortunato, difensore della Juventus, ammalatosi di leucemia a soli 23 anni e morto il 25 aprile 1995 a causa di una polmonite quando la malattia stava quasi per essere sconfitta. A soli 42 anni, nel 2002, muore Gianluca Signorini, è ancora il morbo di Lou Gehrig a infierire nello sport. Questi i nomi più celebri ma la lista sarebbe ancora lunga. Pur non conoscendo le cause che hanno portato agli arresti cardiaci in campo e a contrarre la Sclerosi laterale amiotrofica (nella quale si è registrato un indice di correlazione piuttosto alto tra calciatori, ex-calciatori e malattia, forse per i ripetuti traumi alle gambe, i colpi di testa dati al pallone, i farmaci, ma in campo medico siamo ancora nel regno della pura ipotesi), suscita preoccupazione la frequenza di episodi così tragici. Qualcuno pensa al caso o a un’impietosa sentenza del fato. E forse è così.  Ma come un tuono, pauroso e inaspettato, nel mezzo di un temporale, risuonano le parole che Zdenek Zeman pronunciò dell’ormai lontano 1998 scuotendo fortemente il mondo del calcio: “Il calcio deve uscire dalle farmacie e dagli uffici finanziari”. Non sappiamo ancora se l’alta incidenza di quella malattia e la recente frequenza di arresti cardiaci di giovani sportivi siano dovuti all’assunzione di farmaci. Non possiamo dirlo. Ma abbiamo il dovere di chiedercelo. Un interrogativo inquietante, che squarcia il silenzio angosciosamente calato su tutti gli stadi d’Italia ieri pomeriggio. Ancora una volta.

Democrito diceva che “tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità”. Baruch Spinoza, molti secoli più tardi, avrebbe scritto: “Il mondo è un effetto necessario della natura divina, e non è stato fatto per caso”. Necessità o caso. Destino o tragica fatalità. Provvidenza divina o natura matrigna. Questi gli antipodi che, dall'inizio della storia, hanno diviso la mente dell’uomo quando ha cercato di dare risposta a eventi inspiegabili. Già, perché la nostra mente rigetta l’idea che una sorte così avversa possa toccare casualmente qualsiasi vita. Respingiamo l’inspiegabile e l’ineluttabile. E ci rifugiamo nel pensiero del disegno divino o della natura che agisce necessariamente e finalisticamente. Respingiamo l’idea della casualità, quella perversa immagine della natura o di un’entità divina che “gioca a dadi” con le nostre vite. Tutto può essere, ogni spiegazione ha il suo fascino e porta con sé quella dose di speranza di cui l’umanità del nostro essere ha bisogno. Ma non sappiamo quale sia la risposta. Nessuno ha mai avuto e mai avrà la chiave per svelare il senso di simili non-sensi.

sabato 14 aprile 2012

ANCHE GLI ANIMALI PENSANO



Secondo Telesio, è innegabile che nel mondo animale e vegetale esistano forme di spiritualità. Già Aristotele aveva attribuito alle piante un’anima vegetativa e agli animali un’anima sensitiva, e solo agli uomini l’intellettiva. Le tesi di Telesio è, però, peculiare perché basata su un sensismo radicale: tutta la conoscenza dell’uomo si riduce alla sensazione, infatti “il senso che sente, paragona e connette le cose simili, costituisce l’universale”. Una sensazione raffinata, quella dell'uomo, certo, ma nulla più che una sensazione. E dal momento che il pensiero si basa sulla sensibilità e dal momento che è inconfutabile la capacità percettiva degli animali, Telesio non può che concludere che anche gli animali pensano: “Si considerino le bestieesse sono fornite soltanto del senso, eppure hanno conoscenze universali non meno che gli uomini. Non si può infatti dubitare che esse riconoscono l’uomo, il leone, l’animale, la pianta e le differenze tra l’una e l’altra cosa e sanno che il fuoco riscalda e che l’aria e l’acqua sono cedevoli…”.

La tesi della similarità tra uomo e animale è poi rafforzata, a metà dell'Ottocento, dall'evoluzionismo darwiniano: "Le facoltà mentali dell'uomo e degli animali inferiori non differiscono per tipo, bensì immensamente per grado". Non vi è una dimensione metafisica estranea al mondo animale e peculiare dell'uomo. Per Darwin, l'uomo è un semplice animale, in tutti i suoi aspetti, nel corpo come nello spirito.
Non c'è ragione, dunque, nè etica nè scientifica, di stabilire una presunta superiorità di diritti che consentirebbero alla sfera umana di prevaricare e violentare il mondo naturale e animale.

venerdì 13 aprile 2012

ANIMA, TRA RAGIONE E CUORE

Dove abita l’anima umana? Dove si colloca precisamente? E’ qualcosa di così vago e sfuggente che sembra impossibile localizzarla. Essa sfugge, infatti, a qualsiasi processo di materializzazione.
Ormai c'è unanime accordo tra gli scienziati nel collocarla nell’organo cerebrale. Ma nell’antichità diverse affascinanti teorie si sono succedute. Suggestiva quella di Omero che poneva l’anima nel diaframma, perché “luogo del respiro”. Opposte prospettive si sono trascinate per secoli fino all’epoca moderna quando, con la nascita dell’anatomia e della fisiologia e con il pensiero di Cartesio, si è stabilita la preminenza del cervello nell’attività psichica.

Il pensiero greco e quello medievale oscillarono tra due opposte concezioni: cardiocentrismo ed encefaloncentrismo. Esponente illustre del primo fu Aristotele, autore della prima opera di natura psicologica nella storia della cultura occidentale: il De anima. Lo Stagirita riteneva che fosse il cuore il centro dell’attività psichica e che il cervello avesse solo il compito di “raffreddare” il corpo, riequilibrando così l’intero sistema organico. Nel cuore avrebbe luogo, così, l’associazione tra esperienze, immagini e memoria secondo i criteri della similarità, del contrasto e dell’associazione.
La  prospettiva dell’encefalocentrismo fu sposata, invece, da Ippocrate, padre della medicina occidentale, che vede nel cervello la sede dell’attività razionale e dell’emozione: “Gli uomini devono sapere che il piacere, la letizia, il riso, gli scherzi e così pure il dolore, la pena, l’afflizione e il pianto da nessun’altra parte provengono se non dal cervello. Per opera sua noi soprattutto pensiamo e guardiamo e udiamo e riconosciamo ciò che è vergognoso e bello e brutto e buono e piacevole e spiacevoleE, sempre per opera sua, noi diventiamo folli e usciamo di senno ed abbiamo incubi e terrori e soffriamo di sogni e di smarrimenti ingiustificatiPer questo io credo che il cervello abbia un grandissimo potere sull’uomo. E gli occhi e le orecchie e le mani e i piedi si comportano secondo quello che il cervello capisce. E il cervello è per così dire il messaggero dell’intelligenza. Né il cuore né il diaframma hanno nulla a che vedere con la capacità di pensare ma la causa di tutti questi fenomeni è nel cervelloPer questi motivi penso che il cervello abbia la forza più grande nell’uomo”.

giovedì 12 aprile 2012

CRISI ECONOMICA: SUICIDIO E ANOMIA

La Grecia deteneva il primato del Paese europeo con il più basso tasso di suicidi. Nella prima metà del 2011 ha invertito questo record, diventando il Paese con il tasso più elevato. In Italia abbiamo toccato quota sedici tra imprenditori e artigiani che negli ultimi due anni si sono tolti la vita per timore di non riuscire a far fronte a una situazione economica sempre più disperata. Ma sono molti di più, se consideriamo altre categorie. Il 3 aprile un’anziana di Gela si uccide lanciandosi dal terrazzo della propria abitazione, l’Inps le aveva ulteriormente ridotto la pensione. Il 27 marzo un imbianchino di 49 anni si è gettato dal balcone a Trani, non sopportando lo stato di disoccupazione che si portava dietro da tempo. All’indomani, a Bologna, un imprenditore edile, anni 58, si è dato fuoco davanti all’Agenzia delle Entrate. Non muore ma finisce in ospedale in condizioni gravissime. “Un fatto gravissimo, sintomo di una grande esasperazione che imbriglia i lavoratori più deboli e spesso soli con i loro problemi”. Così commenta il fatto il Segretario confederale della Cgil, Vincenzo Scudiere. Già, un’esasperazione generalizzata, un male sociale che colpisce giovani e meno giovani, indiscriminatamente e crudelmente. Un disagio purtroppo sottovalutato, nonostante le belle parole che i nostri governanti ci regalano per esprimere il loro cordoglio. Ipocrisia e indifferenza. Il vento gelido della noncuranza fredda gli animi e congela il cuore.


Durkheim, padre della sociologia funzionalista, ha visto nel suicidio un fatto prettamente sociale, determinato in prevalenza da variabili esterne (religione, famiglia, economia, politica). In un’ampia ricerca del 1897, intitolata Il suicidio. Studio di sociologia, mette in evidenza come esso sia un’azione solo apparentemente soggettiva. In realtà, la vera forza motrice del gesto è di natura sociale e va ricondotta soprattutto a una diminuzione del potere coesivo della società e a una frantumazione dei valori al suo interno. Tra le diverse tipologie di suicidio studiate, emblematico è il suicidio anomico, oggetto di successivi studi e approfondimenti. Anche se il termine anomia viene legato al nome di Durkheim, è in realtà assai antico e si rintraccia già in Senofonte (427 a.C.) che riteneva la legalità fondamentale per l’ordine sociale. Letteralmente, infatti, “anomia” vuol dire “assenza di norme” e Durkheim, in opposizione a Jean-Marie Guyau, ne sottolinea la negatività, il carattere di potenziale minaccia per l’ordine sociale costituito. L’anomia, intesa in senso durkheimiano, indica non solo uno stato di assenza di norme sociali ma una mancanza di regolazione morale. L’individuo dipende totalmente dalla società e ha fortemente bisogno dell’azione regolatrice che quest’ultima esercita sui suoi istinti disordinati. Per Durkheim “le deliberazioni umane, quali le raggiunge la coscienza riflessiva, sono spesso mera forma, senza altro oggetto che di corroborare una risoluzione già presa per motivi che la coscienza ignora”. I motivi che la nostra coscienza ignora sono rappresentati dalla società e dal suo potere di integrazione che non è costante ma varia a seconda del contesto e del periodo storico. La società ha la funzione di creare coesione e di regolare le azioni e le passioni individuali: “La società non è soltanto una cosa che attrae a sé con ineguale intensità i sentimenti e l’attività degli individui, ma è anche un potere che li regola”. Quando questo potere si indebolisce, viene meno anche  la forza coesiva della società e subentra uno stato anomico che Durkheim considera all’origine del fenomeno del suicidio.


Il suicidio anomico è studiato in correlazione alle crisi economiche. Basandosi su molteplici dati statistici, egli notò un forte aumento del fenomeno nei momenti di crisi, intendendo però per "crisi" non solo i momenti di recessione ma anche quelli di eccessiva prosperità. In quest’ultimo caso, infatti, la società perde la propria forza e non riesce più a indicare i limiti oltre i quali non è lecito spingersi. Gli individui, così, credono possibile il raggiungimento di qualsiasi meta e, non sapendo autoregolarsi come fanno gli animali, vanno alla ricerca infinita di nuovi obiettivi che li lasceranno insoddisfatti e in uno stato di anomia cronica: “La passione dell’infinito viene quotidianamente presentata come un segno di distinzione mentre non può verificarsi che in seno a coscienze sregolate che erigono a norma la sregolatezza di cui soffrono”.


La sregolatezza di cui parla l’autore dilaga sia nei momenti di estrema agiatezza economica sia nei momenti di crisi. E oggi, in una situazione di endemica crisi economica, siamo costretti a constatare come la dispersione morale e la mancanza di certezze e di regole stia prendendo il sopravvento sull’equilibrio e la forza individuale: “Sele crisi industriali o finanziarie aumentano i suicidi non è perché impoveriscono, giacché le crisi di prosperità hanno lo stesso risultato, ma perché sono crisi, cioè delle perturbazioni dell’ordine collettivo”. Mancanza di norme e di certezze. Nessuna bussola per orientarsi in questo disordine, in cui ci si sente persi e inghiottiti dalla solitudine. La società non appare più in grado di svolgere la funzione moderatrice di cui parla Durkheim, anzi sta sempre di più perdendo quel ruolo vitale di “potere morale superiore di cui l’individuo accetta l’autorità”. E la metafora tragica viene a essere il gesto estremo di un giovane, Norman Zarcone, il ventisettenne dottorando di ricerca in “Filosofia del linguaggio” che il 13 settembre 2010 si è lanciato dal settimo piano della facoltà di Lettere e Filosofia a Palermo. Aveva conseguito due lauree e sognava di diventare professore. Un sogno che si è reso ben presto conto sarebbe rimasto tale. Dure le parole del padre, all’indomani della tragedia: “Il suo gesto lo considero un omicidio di Stato. - dichiara - Era molto depresso per il suo futuro, si era laureato in Filosofia della conoscenza e della comunicazione, con 110 e lode. A dicembre si sarebbe concluso il dottorato di ricerca della durata di tre anni svolto senza alcuna borsa di studio. I docenti ai quali si era rivolto gli avevano detto che non avrebbe avuto futuro nell'ateneo. E io sono certo che saranno favoriti i soliti raccomandati”. Raccomandazioni, nepotismo, corruzione, questo è il cancro dell’Italia che nessuna pseudo riforma riuscirà a debellare. Semplicemente perché non si vuole debellarlo. Semplicemente perché chi è al vertice resta attaccato come una sanguisuga ai propri privilegi e vuole mandare avanti i propri figli, nipoti, conoscenti. Non importa se imbecilli o incapaci. L’importante è sistemarli. Chi ha dedicato il proprio tempo allo studio e alla crescita professionale, con serietà e impegno, ma non ha amici o parenti ammanicati, rimane tagliato fuori. Ed è un soggetto a rischio, sempre più solo e amareggiato, incatenato ai meccanismi di una società che non è più madre amorevole, capace di guidare ed educare i suoi figli, ma matrigna, crudele ed egoista dispensatrice di privilegi a una ristretta cerchia di “mostri” che essa stessa ha generato.



martedì 10 aprile 2012

L'UNIVERSO: REALTA' O ILLUSIONE?

I sensi sono lo strumento di mediazione tra noi e l'universo in cui viviamo. Gli occhi ci permettono di vedere oggetti, forme, colori. Attraverso il tatto possiamo sentire la morbidezza, la ruvidità, il calore. L’olfatto ci consente di percepire odori. Il gusto di assaporare le cose. Sono una specie di estensione del corpo, degli utensili preziosissimi che ci mantengono connessi con la realtà. Potremmo parlare dei cinque sensi come di una finestra meravigliosa che offre una sconfinata veduta su un paesaggio meraviglioso, il nostro mondo. Nella sua interezza e in ogni suo dettaglio. Almeno questo è quello che tutti crediamo.

L’errore che gli uomini commettono è quello di ritenere la realtà effettiva sotto il loro totale controllo. E questo in virtù di un preteso dominio della conoscenza, radicato nella nostra natura. Crediamo di sapere tutto e di poter, in ragione del possesso del sapere, fronteggiare l’esperienza esterna. Ma siamo davvero sicuri che la realtà esterna sia tale quale noi la percepiamo? Non è detto, infatti, che ciò che appare sia ciò che effettivamente è. Siamo sicuri che la materia percepita dai sensi e poi elaborata dal nostro cervello sia quella che crediamo di conoscere?
L’uomo, sin dai primordi, si è sempre interrogato sulla natura delle cose. Non è un caso che la gnoseologia, ossia la teoria della conoscenza, sia una delle branche più estese della filosofia. Kant alla fine del Settecento elaborò una dottrina gnoseologica per certi versi rivoluzionaria, ponendo i fondamenti di una nuova epistemologia che desse sostegno al filone scientifico galileiano-newtoniano. In quella che egli stesso definì "una Rivoluzione copernicana in filosofia" capovolse i rapporti tra il soggetto conoscente e l’oggetto. Secondo il filosofo di Konigsberg, non è l’uomo ad adattarsi passivamente all’oggetto nel processo conoscitivo ma è l’oggetto a modellarsi sulle sue strutture conoscitive. La realtà si plasma e si adatta alle forme a priori attraverso cui noi la percepiamo.
E’ nota la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno. Il fenomeno è l’unica realtà conoscibile per l’uomo, ma essa non è il noumeno, ossia la realtà in sé. Ciò non vuol dire, dice Kant, che ciò che ci appare, ossia il mondo fenomenico, sia un’illusione, una mera parvenza. Il fenomeno può essere definito, con tutta certezza, un oggetto reale, ma può essere considerato tale solo in relazione al soggetto conoscente. E' come se noi sapessimo di indossare, sin dalla nascita, delle lenti di color azzurro. In tal caso, pur essendo consapevoli che il mondo circostante non è realmente azzurro, potremmo asserire con tutta certezza che per noi lo è. E per noi sarà sempre azzurro, dalla nascita alla morte, anche se poi sappiamo che la realtà in sé, ossia la realtà considerata indipendentemente dalle nostre forme a priori che la filtrano, è diversa ed è per noi inconoscibile.
L’io penso kantiano è il fondamento non solo della natura ma anche della disciplina scientifica che la studia, tant’è che il filosofo definisce l’io "il legislatore della natura": gli oggetti esterni, ovviamente, non vengono creati dalla mente ma sono, per così dire, sintonizzati con le nostre modalità conoscitive. Possiamo conoscerli sul piano fenomenico, ma non possiamo carpirne l'essenza.

Schopenhauer si spinse ancora oltre e arrivò ad affermare che la realtà è sogno, è ciò che gli antichi indiani chiamavano “velo di Maya”. Celebre, a questo proposito, il passo che riprese dagli antichi testi dei Veda e dei Purana “E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista , né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente”. I Veda, infatti, consideravano l’esistenza come una specie di illusione ottica. Già Platone, nell’antica Grecia, aveva affermato che “gli uomini non vivono che in un sogno”. Pindaro disse che “l’uomo è il sogno di un’ombra”. Infine, Shakespeare: “noi siamo di tale stoffa, come quella di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è chiusa in un sonno”.

Al di là della visione della vita come sogno e illusione, è comunque plausibile l’ipotesi che la realtà non sia quella che tutti i giorni constatiamo empiricamente. Se fossimo sprovvisti dei nostri sensi e delle nostre strutture conoscitive, non potremmo percepire la realtà esterna oppure essa apparirebbe completamente diversa. Alcuni animali, ad esempio i cani, percepiscono il mondo in bianco e nero; altri, come i pipistrelli, hanno scarse capacità visive e si orientano nello spazio emettendo ultrasuoni che, rimbalzando contro gli oggetti, fanno sì che possano “mappare” l’ambiente come avessero incorporati dei radar biologici. Noi esseri umani, invece, siamo stati predisposti a percepire le cose in una certa forma ed estensione e a percepire il mondo come un insieme di colori. Ma la materia reale, l’oggetto noumenico, è totalmente diverso ed è al di là di ogni immaginazione e pretesa conoscitiva.

giovedì 5 aprile 2012

CAPITALISMO, UN'INTERPRETAZIONE DIVERSA

Il Presidente del Consiglio Mario Monti i giorni scorsi  ha infranto ogni tabù e ha parlato del capitalismo europeo e della sua crisi incombente proprio a Pechino, da sempre simbolo e culla del comunismo. “Vengono un po’ i brividi a dirlo nella scuola del partito comunista cinese, ma ormai siamo tutti liberi da pregiudizi ideologici. Credo che il sistema capitalistico abbia molti punti di vantaggio rispetto al sistema comunista ma da quando è diventato sistema dominante si è rilassato e ha visto troppo predominio del capitale e dell’impresa sul lavoro e sui poteri pubblici”. Capitalismo, discorso vecchio e pure sempre attuale. Se ne è sempre parlato, tra ideologia e scienza, utopia e realtà. Si è sempre cercato di darne una spiegazione scientifica, di individuarne le dinamiche e, soprattutto, di determinare la natura dei suoi influssi sulla vita sociale.

Il pensiero di Marx ha esercitato, senza dubbio, una profonda influenza sul modo di guardare questo fenomeno. Se lo si vuole analizzare, infatti, dal punto di vista marxista  si dovrà porre l’accento sul fattore economico, come elemento esclusivo di spiegazione dell’origine e della diffusione di questo specifico evento storico. Ma diverse sono state le chiavi di lettura del capitalismo. Ad esempio, Max Weber, economista e sociologo tedesco, con i due famosi saggi del 1904 e 1905 pubblicati con il titolo L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, ne ha dato un’interpretazione diversa. A una lettura superficiale e sommaria dell’opera si potrebbe intendere che l’autore ritenga il protestantesimo, e in particolare il calvinismo, all'origine del capitalismo moderno. In realtà, Weber sottolinea più volte che un fenomeno specifico non può essere originato unicamente e direttamente da un solo fattore. La sua convinzione è che vi sia un’interdipendenza di fattori economici e culturali alla base del capitalismo che si influenzano reciprocamente. Ciò non destituisce di fondamento la concezione marxista ma ne mette in luce l’unilateralità e la parzialità. Marx, infatti, riconduceva alla distribuzione della ricchezza e della proprietà (quindi alla sola causa economica) l’origine della stratificazione sociale tipica della modernità. La stratificazione è prodotta, invece, secondo la visione weberiana, dalla normale tendenza presente in ogni individuo ad aggregarsi in gruppi separati, ad esempio vi sono persone che fanno lo stesso lavoro o coloro che condividono una passione o un hobby oppure coloro che abbracciano la stessa fede religiosa. Alla base egli individua tre fattori significativamente intrecciati tra loro: economia, potere e cultura. Gli individui cioè si riuniscono perché spinti dagli stessi interessi economici o dalla ricerca del potere oppure per un fatto culturale. Per questo Weber parla di stratificazione tripartita: stratificazione per classe sociale (ossia su base economica), per appartenenza politica (basata sul potere), e per ceto (fondata sulla cultura), che si influenzano reciprocamente, per cui l’appartenenza a un gruppo culturale può influenzare la posizione economica o viceversa. Ad esempio nell’opera L'etica protestante e lo spirito del capitalismo mette in relazione religione e capitalismo mostrando come la mentalità calvinista sia stata la pre-condizione culturale al formarsi della mentalità economica tipica del capitalismo. I protestanti calvinisti, infatti, credevano nella dottrina della predestinazione secondo la quale le opere e le azioni del fedele non garantiscono la salvezza perché solo Dio decide chi vi è destinato. Di qui lo stato di paralizzante impotenza del fedele che non può far nulla per guadagnarsi la beatitudine eterna. La reazione psicologica più comune fu, dunque, quella di impegnarsi nella ricerca del successo in terra attraverso il lavoro per dimostrare che la riuscita economica era un segno della loro predestinazione. Ciò dimostra, secondo Weber, come il fattore culturale possa determinare la condizione economica, produrre divisioni sociali e influire persino sul potere.

L’obiettivo di Weber è rilevare un’affinità profonda tra etica protestante e spirito del capitalismo e individuare l’insieme di elementi che, in virtù del loro particolare assemblaggio, hanno determinato un fenomeno storicamente specifico. Il capitalismo moderno, infatti, così come lo conosciamo, non sarebbe mai potuto sorgere in altre epoche storiche. Certo, forme capitalistiche ci sono state anche in altre società, ma questa tipologia specifica si riscontra solo nell’Occidente moderno. Tra i vari fattori che in una certa epoca storica ne hanno reso possibile la nascita troviamo: il lavoro formalmente libero, l’organizzazione razionale dell’impresa finalizzata al guadagno, la separazione dell’amministrazione domestica dall’azienda, la tenuta razionale dei libri contabili. E ovviamente anche l’incremento delle possibilità tecniche. Ma l’eccessiva enfasi su quest’ultimo aspetto finirebbe per rendere risolutiva la spiegazione marxista, cui Weber riconosce piena legittimità, ma che considera unilaterale e incompleta. E’ un complesso intreccio di fattori ad aver delineato il capitalismo come fenomeno specificamente moderno. Ma, soprattutto, il capitalismo non avrebbe mai trovato terreno fertile se non vi fossero stati dei presupposti culturali atti a renderlo fecondo. E Weber individua tali presupposti proprio nell’etica protestante e nella dottrina della predestinazione che comporta l’inutilità dell’azione umana per la conquista della grazia divina. Di qui l’importanza del lavoro e del guadagno assunto come segno distintivo dello status di prescelto. Non è un caso che Weber riporti alcune citazioni di Benjamin Franklin per sottolineare come il denaro sia assurto a simbolo della cultura capitalistica e calvinista: “Ricordati che il tempo è denaro; ricordati che il credito è denaro; ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo; ricordati che chi paga puntualmente è padrone della borsa di ciascuno”.

martedì 3 aprile 2012

LA DISTRUZIONE DEL COGITO

Così scrive Paul Ricoeur, filosofo francese, nell’opera “Dell’interpretazione, saggio su Freud” del 1965: “Se risaliamo alla loro intenzione comune, troviamo in essa la decisione di considerare innanzitutto la coscienza nel suo insieme come coscienza “falsa”. Con ciò essi riprendono, ognuno in un diverso registro, il problema del dubbio cartesiano, ma lo portano nel cuore stesso della fortezza cartesiana. Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a se stessa; in essa, senso e coscienza del senso coincidono; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del dubbio sulla coscienza”. Un'interpretazione che destituisce di ogni fondamento la scienza di origine cartesiana.

Il filosofo cartesiano dubita di ogni cosa ma ha una certezza indistruttibile che si radica nel cogito, nella coscienza. Noi possiamo dubitare di tutto, tranne che del nostro pensiero e, quindi, della nostra esistenza. Ecco, questa tradizione di pensiero viene demolita dal pensiero di Marx, Nietzsche e Freud, che Ricoeur chiama “Maestri del Sospetto”, perché hanno “sospettato” che dietro le cosiddette "certezze" (come la Coscienza, il Vero, il Bene) si celassero, occulte e inosservate, forze ben più potenti. Marx ha visto negli interessi economici la molla dell’agire storico, Freud ha scoperto l’Inconscio che inganna continuamente la stessa coscienza, Nietzsche ha descritto la Volontà di potenza come il peculiare modo di essere del superuomo, sorgente inesauribile di interpretazioni e significati attraverso la quale ricreiamo e reinventiamo la nostra vita. Ecco un passo di Così parò Zarathustra: “E la vita stessa mi ha confidato questo segreto. Vedi, - disse, - io sono il continuo, necessario superamento di me stessa”. E poi ancora: “mille sentieri vi sono ancora non percorsi; mille salvezze e isole nascoste della vita. Inesaurito e non scoperto è ancora sempre l’uomo e la terra dell’uomo”.

Ricoeur parla dei tre maestri del sospetto come di grandi “distruttori” e afferma che “tutti e tre liberano l’orizzonte per una parola più autentica, per un nuovo regno della Verità, non solo per il tramite di una critica “distruggitrice”, ma mediante l’invenzione di un’arte di interpretare. Cartesio trionfa del dubbio sulla cosa con l’evidenza della coscienza; del dubbio sulla coscienza essi trionfano per mezzo di una esegesi del senso. A partire da loro, la comprensione è una ermeneutica; cercare il senso non consiste più d’ora in poi nel compitare la coscienza del senso, ma nella decifrazione delle espressioni”. Essi fondano una nuova arte dell’interpretazione, dove l’obiettivo di Marx è “liberare la praxisliberazione inseparabile da una presa di coscienza che replichi vittoriosamente alle mistificazioni della falsa coscienza”, quello di Freud è far sì che “l’analizzato, appropriandosi del senso che gli era estraneo, allarghi il proprio campo di coscienza”, mentre Nietzsche aspira all’ “aumento della volontà di potenza…ma quel che vuol dire volontà di potenza deve essere recuperato dalla meditazione delle cifre del superuomo, dell’eterno ritorno e di Dioniso”. Nuovi significati, dunque, nuovi orizzonti da esplorare, dove le certezze acquisite vacillano e appaiono in tutta la loro fragilità.

sabato 31 marzo 2012

LA MEMORIA IN TRIBUNALE. FALLIBILITA' ED ERRORE

Se ci viene chiesto dove eravamo l’11 settembre del 2001 esattamente nel momento in cui a New York due aerei si schiantavano sulle Torri Gemelli provocando l’attacco terroristico più disastroso di tutti i tempi, tutti ricordiamo distintamente cosa facevamo e il luogo in cui ci trovavamo. E’ un esempio di flash bulb memory (memoria fotografica), un ricordo focalizzato su un evento specifico e dotato di particolare rilevanza che si configura così vivido e intenso da sembrare una foto perfetta del fatto. Peculiarità della memoria fotografica è la facilità di rievocazione dell’evento, più facilmente accessibile in virtù della sua distintività ed eccezionalità. Tuttavia, anche ricordi di questo genere non sono immuni da errori. Ad esempio, avremmo difficoltà a recuperare tutti i particolari del contesto originale e qualora ci riuscissimo sarebbero imprecisi e soggetti a significative distorsioni. Ciò è stato dimostrato da diversi studi che hanno evidenziato come, con il trascorrere del tempo, i ricordi di eventi eccezionali siano sempre meno precisi. Ed è tale imprecisione che rende la memoria uno strumento instabile e difficile da gestire in molte situazioni. Eppure ci si affida costantemente ad esso. I ricordi umani rappresentano un elemento di grande rilevanza in numerosi contesti. Ci si affida al flusso dei pensieri non solo nella nostra quotidianità per rievocare situazioni, emozioni, fatti personali ma anche in ambito giuridico per fatti pubblici e di interesse collettivo. Pensiamo agli interrogatori in caserma o ai processi in aula. La ricostruzione del fatto ad opera dell’imputato o dei testimoni costituisce il perno su cui si basa l’iter processuale. E non sono pochi i casi di condanne sbagliate a causa di testimonianze poco accurate o addirittura di scambi di persona. Il testimone oculare, che senza dubbio rappresenta un elemento fondamentale per la risoluzione di un caso, può essere soggetto a pericolosi abbagli. Molte ricerche hanno mostrato un’alta frequenza di errori nell’identificazione di persone sospettate di crimini. Elizabeth Loftus, psicologa americana, ha dimostrato, ad esempio,  l’enorme impatto esercitato dalle armi sulla ricostruzione dell’evento. Se assistiamo a una rapina, la nostra attenzione sarà totalmente catalizzata sull’arma da fuoco o da taglio in mano al criminale e presteremo meno attenzione ad altri particolari dell’evento, compreso l’aspetto fisico del malvivente. La stessa Loftus ha dato inizio a un filone di studi sul cosiddetto “effetto dell'informazione sbagliata” (per l’esattezza, post-event misinformation effect, ossia l’effetto di un’informazione fuorviante fornita dopo l’evento) e ha portato conferme al fatto che se i soggetti ricevono falsi dettagli su un evento cui hanno assistito sviluppano ricordi distorti. Le sue ricerche hanno anche rilevato il potere esercitato da certe tipologie di domande nel recupero di un evento vissuto. Di qui l’importanza della correttezza e neutralità delle domande poste in sede di interrogatorio. Una loro errata formulazione da parte degli inquirenti o dei procuratori può influenzare il processo di rievocazione delle informazione e causare distorsioni rilevanti nella ricostruzione del fatto. E’ stato evidenziato come anche la modifica di una piccola parte di una frase, come l’articolo, possa aumentare la probabilità di alterazione del ricordo.
La fallibilità della memoria è un problema ancora più rischioso quando a testimoniare sono i bambini perché più vulnerabili all’influenza degli altri. In particolare, sono stati evidenziati tre elementi che potrebbero determinare la costruzione di un falso ricordo: l’effetto del pregiudizio dell’intervistatore, che si verifica quando chi sta interrogando prende in esame una sola ipotesi; l’effetto delle induzioni degli stereotipi, dove chi pone la domanda la formula in maniera tale da ottenere conferma dell’idea che si è fatto; l’effetto di domande ripetute, per cui se a un bambino viene fatta più volte una stessa domanda egli tende a cambiare la risposta.

Un altro fattore di distorsione potrebbe essere lo stress anche se ancora c’è poca chiarezza al riguardo. Alcuni studi hanno mostrato che uno stress elevato in fase di codifica o recupero dell’informazione rende più difficile la rievocazione, altri hanno rilevato invece una maggiore accuratezza del ricordo. Tuttavia, non è possibile trascurare che la memoria di un evento, specie se traumatico, è soggetta all’influenza di numerosi fattori (emotivi, cognitivi, relazionali). Inoltre, essa è inevitabilmente influenzata dal significato che attribuiamo agli eventi. Ad esempio, secondo lo psicologo Frederic Bartlett sono degli schemi a guidare il processo di rievocazione del ricordo. Questi schemi sono temi generali che ricaviamo dalla nostra esperienza e che producono una distorsione sul modo in cui le nuove informazioni sono interpretate e rievocate. Il ricordo viene, cioè, a essere il risultato di una ricostruzione basata su esperienze precedenti.

E’ chiaro che, alla luce di tutta la letteratura scientifica sulla memoria, non possiamo prescindere in sede giudiziaria da un’attenta riflessione sulla sua potenziale fallibilità. La nostra mente è facilmente influenzabile e, nonostante lo straordinario potere che madre natura le ha conferito, è soggetta a distorsioni che il professionista forense non può trascurare. Il suo meccanismo è imperfetto e di questo si deve sempre tener conto anche quando la testimonianza appare verosimile e adatta a incastrarsi all’interno del puzzle in costruzione. Casi di errori giudiziari a causa di scambi di persona o di ricordi imprecisi non sono rari, soprattutto in processi in cui mancano prove concrete a carico degli imputati. Questo perché spesso non si tiene nella dovuta considerazione il complesso intreccio di fattori che può portare a una testimonianza distorta.

mercoledì 28 marzo 2012

ARTE, SPECCHIO MAGICO DELLA REALTA'

“Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”. La risposta che un giorno la regina della favola ebbe fu assai deludente e scatenò un’ira così profonda da far passare delle brutte avventure alla povera Biancaneve. Questo perché lo specchio magico non poteva mentire. Ciò che rifletteva era la verità e niente di più. Lo specchio è per antonomasia l’immagine della realtà e, per quanto deformante possa essere, non può ingannare su ciò che costituisce il tratto essenziale della figura riflessa. Non a caso nella cura del corpo ci si relaziona costantemente ad esso, quasi fosse il mentore esclusivo della nostra “opera d’arte”.
Ma il topos dello specchio è fortemente radicato anche nella tradizione artistica e letteraria. A volte ne è il protagonista (pensiamo al mito di Narciso), a volte semplice strumento, veicolo di immagini, allegoria di fantasie reali. Ogni critico d’arte sa che qualsiasi opera si trovi davanti ha a che fare con la personalità dell’autore, in quanto ne esprime le passioni interiori e la vivacità intellettuale. Tuttavia, essa riflette anche la specifica realtà storica in cui nasce e può addirittura anticiparne le tendenze, con uno sguardo al futuro.

Immergendomi nei meandri delle teorie estetiche, sono rimasta estremamente colpita dalla teoria dell’arte come specchio della realtà messa a punto dal filosofo e sociologo tedesco György Lukács, ungherese del 1885, autore di molti lavori in disparati settori, tra cui spicca su tutti Storia e coscienza di classe, ma anche L’anima e le forme e La distruzione della ragione. La sua influenza nell’ambito della riflessione estetica e della critica letteraria si concretizza, però, in opere come Teoria del romanzo, L’Estetica, Saggi sul realismo, dove elabora un’interpretazione dell'arte fondata sul concetto di realismo. Una concezione di matrice marxista che, nonostante numerosi difetti che non starò qui a esaminare, reca forti suggestioni e consente al critico estetico di assumere una diversa consapevolezza del rapporto tra opera artistica e realtà.

Credo che gli esperti d’arte, di qualsiasi settore (letteratura, cinema, teatro), trovino in Lukács non solo forti suggestioni ma anche un profondo motivo di riflessione e di critica. La sua concezione realistica si oppone sia a quella “naturalistica”, che intende riprodurre la perfetta copia fotografica della realtà, sia al “formalismo”, che aspira a realizzare la perfezione delle forme prescindendo dalla realtà.
Secondo Lukács,  invece, l’arte, esattamente come la scienza, rispecchia “la totalità della vita umana nel suo moto, nel suo svolgersi ed evolversi”. Lo strumento di cui si avvale è il “tipico”, che non va confuso con la media statistica di ciò che accade nella nostra quotidianità, anzi ne è esattamente l’opposto. Il “tipo” artistico è l’essenziale di un’epoca storica e possiede la capacità di cogliere le tendenze di sviluppo di una società: “solo se lo scrittore sa e intuisce esattamente e sicuramente che cosa è essenziale e che cosa è secondario, egli sarà in grado, anche sul piano letterario, di dare espressione all’essenziale e di configurare, a partire da un destino individuale, il destino tipico di una classe, di una generazione, di un’epoca intera. E se lo scrittore abbandona questo criterio di misura, va perduto con esso il mutuo rapporto vivente tra privato e sociale, tra individuale e típico”.

Proprio in quanto rispecchiamento fedele della realtà, l’arte è in grado di andare al di là delle opinioni etico-politiche di un autore. Esemplare il caso di Balzac, legittimista cattolico in politica e fondamentalmente reazionario, ma al tempo stesso capace di leggere e rappresentare realisticamente  il volto della sua epoca, esprimendo un pensiero progressivo e contrario alle sue stesse idee politiche.
La teoria dell’arte come rispecchiamento della realtà oggettiva reca un chiaro influsso shakespeariano, di gran fascino e straordinariamente efficace nel veicolarne il senso: tutti i grandi artisti realisti, dice Lukács, hanno obbedito al comando di Amleto, ossia tenere davanti agli occhi uno specchio e con l’aiuto dell’immagine rispecchiata promuovere l’evoluzione dell’umanità.
L'arte, dunque, come specchio magico della realtà, motore del progresso e dello sviluppo storico.

lunedì 26 marzo 2012

CHI CUSTODIRA’ CHI? IL PRESAGIO DELL'ARTICOLO 18

Mi lascia sempre più perplessa la nuova riforma del mercato del lavoro, che si appresta ad essere approvata, non senza polemiche e malumori.
Il nodo più dibattuto riguarda i licenziamenti per motivi economici, per i quali non si intende solo il caso di una comprovata crisi economica di un’azienda, ma anche motivi di gestione aziendale. Più semplicemente, se il datore di lavoro decide di sostituire il lavoro di un dipendente con uno strumento tecnologico in grado di svolgere il suo lavoro può farlo. Il governo ha assicurato che tali licenziamenti dovranno essere “fortemente motivati”. Certo. Ma, mi chiedo, chi controllerà chi? Come si può essere sicuri che il titolare di un’azienda non stia facendo i propri personali interessi o che dietro il suo licenziamento non si celi un’azione discriminatoria? Non sarà facile effettuare controlli certi e repentini, considerando il gran numero di cause di lavoro attualmente,  e anche in futuro, in corso, nonché lo scarso dispiegamento di personale e risorse in questo settore, come in molti altri.

Eh, sì, ribadisco la mia idea, già espressa qualche giorno fa. E’ la classica riforma all’italiana, scopiazzata qua e là dai tanto osannati modelli tedeschi, danesi, inglesi, svedesi, americani, cui manca un attributo fondamentale che solo potrebbe garantire la riuscita del progetto e lo sblocco del mercato del lavoro: l’originalità. Ogni Paese è una realtà sociale, politica, economica  e culturale a sé. Non si possono assumere dei modelli senza calarli poi nello specifico contesto di riferimento. Gettare un alieno in un habitat ostile può portare a conseguenze disastrose per l’intero sistema. Pensare e attuare un progetto di riforma intelligente significa situarlo nel suo ambiente culturale. E questo non è stato fatto.

Mi chiedo chi controllerà efficacemente i datori di lavoro? Chi ci assicura che sapranno agire in modo trasparente ed etico? Insomma, per dirla con Platone, chi custodirà i custodi?  Nel sistema politico disegnato da Platone era certo che i depositari del potere avrebbero saputo gestirlo al meglio in virtù della loro natura aurea e di una formazione culturale che fin da piccoli li predisponeva a pensare al bene collettivo anziché al loro personale tornaconto. I custodi erano custodi di se stessi. Ma è chiaro che si tratta di un’utopia. Né un politico né il capo di un’azienda possono essere custodi di se stessi. E’ sempre necessario un controllo e una reciproca ed equa limitazione tra diversi poteri. Ma ora si sta affermando uno squilibrio pericoloso tra chi di potere ne ha già tanto (il datore di lavoro) e chi ne viene progressivamente e indebitamente spogliato (il lavoratore). Senza alcuna mediazione, con garanzie fittizie e spiegazioni demagogiche.


 

venerdì 23 marzo 2012

L'INQUIETANTE NORMALITA' DEL PREGIUDIZIO

Si parla spesso di "pregiudizi" per descrivere un'infinità di situazioni sociali. Ma sappiamo realmente cosa siano i "pregiudizi", quale ne sia la fonte, se ne siamo noi stessi vittime?
Utilizziamo spesso il termine “pregiudizio” in un’accezione negativa per descrivere un atteggiamento di uno o più individui potenzialmente nefasto per la convivenza sociale. In realtà, il significato della parola è assai più ampio. Non direi neutrale, perché ha implicazioni soggettive molto forti e una spiccata radicalità sia in un senso che nell’altro. Il pregiudizio è essenzialmente un atteggiamento, che può essere di favore o sfavore nei confronti dell’altro gruppo, anche se comunemente lo intendiamo come una posizione negativa verso gli altri, fonte di discriminazione e di razzismo. Si tratta di una conoscenza intergruppo, come lo sono gli stereotipi e la distanza sociale, ossia tipologie di conoscenze largamente condivise che hanno per oggetto interi gruppi e maturano nel corso dell’interazione sociale.
Nella seconda metà del Novecento gli studi di psicologia hanno dimostrato come questo genere di conoscenze, sebbene soggette a forti distorsioni cognitive, non siano del tutto destituite di fondamento. L’opera di G.W. Allport La natura del pregiudizio ha portato a una riabilitazione delle conoscenze intergruppo in quanto ha mostrato come le distorsioni presenti nei nostri ragionamenti rispondano a meccanismi cognitivi normali, che tutti possiedono e mettono in atto, e come la maggior parte degli stereotipi contenga un “nocciolo di verità” sul quale ovviamente si costruiscono convinzioni errate. L’idea che nessuno sia immune dal pregiudizio e che i processi mentali siano naturalmente soggetti a errore è un’acquisizione recente nella storia della scienza. Essa si è imposta in psicologia sociale solo quando, con l’affermarsi della psicologia cognitiva, ha cominciato a scricchiolare il modello perfetto dell’individuo razionale, immune da errori e capace di operazioni mentali precise.

In passato, specie nel dopoguerra, si riteneva che stereotipi e pregiudizi fossero il risultato di qualcosa di patologico, un pensiero malato e distorto.  Un classico nella storia della sociologia è la serie di studi condotti dagli esponenti della Scuola di Francoforte (Adorno,  Horkheimer e colleghi) sui pregiudizi e l’antisemitismo, tra i quali spicca per fama quello su “ La personalità autoritaria”. Si tratta di una ricerca pubblicata nel 1950 da cui emerge come i pregiudizi siano conoscenze patologiche prodotte da un’educazione sbagliata. Adorno si avvale del contributo della psicoanalisi freudiana per capirne a fondo i meccanismi. Riesce così a svelare come il bambino interiorizzi gradualmente e in modo inconscio l’autorità della società tramite l’interiorizzazione dell’autorità paterna. La conclusione è che gli individui antidemocratici possiedono un tipo particolare di personalità e provengono, nella maggior parte dei casi, da famiglie in cui i rapporti tra genitori e figli risultano caratterizzati da elementi di dominio, sottomissione e frustrazione. All’origine della personalità autoritaria vi sarebbe, dunque, un’educazione repressiva per cui il bambino cresce serbando una forte ostilità nei confronti dei genitori autoritari ma, non potendo ribellarsi, impara a identificarsi con l’autorità paterna e convoglia tutta la sua energia aggressiva sui deboli. La ricerca mostra anche una stretta connessione tra personalità e struttura sociale, l’influenza del modello culturale globale a sfondo fascista sulla formazione individuale. L’individuo pieno di pregiudizi, sottolinea Adorno, “è da considerare in larga parte il risultato della nostra civiltà. La sproporzione crescente tra i vari “agenti” psicologici interni alla personalità globalmente intesa viene senz’altro rinforzata da tendenze della nostra cultura quali la divisione del lavoro, la crescente importanza di monopoli e istituzioni e l’idea dominante di mercato, di successo e di competizione”.
Dieci anni più tardi, nel 1960, è Milton Rokeach a dedicare i suoi studi ai pregiudizi. Egli ne attribuisce la causa a un’ampia gamma di fattori (tra cui disturbi mentali cognitivi, chiusura mentale). Nel libro “The open and closed mind” distingue gli individui con una mente aperta da quelli in cui predomina una chiusura mentale. Questi ultimi  si costruirebbero giudizi distorti sulla realtà sociale e svilupperebbero atteggiamenti intransigenti e intolleranti verso chi possiede opinioni diverse.
Altre ricerche hanno individuato una possibile causa sociale dei pregiudizi, sottolineando come il disagio socio-economico, l’aggressività, i conflitti interclasse, la crisi dei valori possano concorrere alla diffusione di intolleranza e sospetto. L’economista e politico svedese Gunnar Myrdal, nella sua opera del 1944 sul razzismo negli Stati Uniti, intitolata “An American dilemma. The Negro Problem and Modern Democracy”, ha mostrato come, a suo avviso, l’ignoranza giochi un ruolo di primissimo piano nella formazione di pensieri distorti: “Tutte le forme di conoscenza e di ignoranza tendono sempre all’opportunismo o divengono tanto più opportuniste quanto meno sono soggette al controllo e alla verifica di una valida ricerca imperniata su fatti empirici”.

Il fattore sociale è importante per capire il fenomeno del pregiudizio, ma da solo non basta. Così come la spiegazione psicoanalitica, che non convince del tutto e palesa difetti di parzialità e di metodologia.
Gli studi finora esaminati sono, sotto certi aspetti, ancora attuali e di grande interesse ma hanno mostrato con gli anni delle debolezze strutturali soprattutto per quanto riguarda la loro ipotesi di partenza: la convinzione che i pregiudizi interessino solo personalità viziate e celino un pensiero patologico e malato. Nell’immediato dopoguerra una tale analisi non poteva che apparire rassicurante perché istillava negli animi la convinzione che il diffondersi delle ideologie nazifasciste e dei regimi totalitari fosse solo una parentesi, tragica e buia, nella storia dell’uomo, l’esito perverso e per certi versi casuale di una combinazione di fattori che univano la componente patologica a uno scenario sociale fertile ad accoglierla e a farla germogliare. E invece gli studi più recenti, soprattutto di psicologia cognitiva, hanno dimostrato che i pregiudizi non sono appannaggio esclusivo di menti malate ma sono ampiamente diffusi anche tra individui perfettamente sani e istruiti. Insomma, nessuno è immune totalmente dal pregiudizio. Basti pensare a quante volte dipingiamo le altre culture con colori che non useremmo mai per la nostra. La mia ovviamente è una metafora, che vuol mettere in evidenza la tendenza presente nella mente umana a descrivere gli altri in modo “distorto”. E’ assai inquietante il recente studio di E. Aronson che ha parlato dei “pregiudizi delle menti aperte”, assai pericolosi perché molto sottili e capaci di celarsi dietro pensieri apparentemente neutrali. Questo è il cosiddetto “razzismo simbolico”, il più pericoloso e difficile da estirpare, nonché oggi il più diffuso, perché assume una forma diplomatica e sofisticata, si nasconde dietro frasi innocue, all’apparenza addirittura sagge, in cui però si evidenzia e si comunica l’inferiorità dell’Altro. Come quando, ad esempio, si afferma di tollerare l’omosessualità ma al contempo si sostiene che non è etico estendere eguali diritti a tutte le coppie; oppure quando si respinge lo stereotipo dell’africano come primitivo e intellettualmente inferiore ma si evidenzia l’incompatibilità della sua cultura con la nostra. La quotidianità è piena di pregiudizi abilmente occultati dietro discorsi all’apparenza neutrali e obiettivi, perle di saggezza, dispensate da tutti noi che ci crediamo portatori di una verità indiscutibile e universale.



mercoledì 21 marzo 2012

L'INCUBO DEL DISUMANO

Un serial killer mosso da furia razzista e antisemita ha ucciso quattro persone, tra cui tre bambini, nella scuola ebraica  “Lycée Ozar Hatorah” di Tolosa, in Francia. Probabilmente è lo stesso animale che  la scorsa settimana ha sparato a tre militari di origine maghrebina. Ancora non è chiaro se le azioni siano frutto di un’organizzazione criminale neonazista oppure dell’iniziativa folle di un singolo la cui mente è completamente annebbiata dall’odio razziale. Si tratta comunque di un assassino estremamente organizzato e addestrato e, quindi, assai pericoloso, che potrebbe colpire ancora. Anzi, gli esperti prevedono un’altra strage proprio per venerdì.

L’Unione Europea, come molti quotidiani nazionali hanno messo in evidenza, ha sempre cercarto di minimizzare un fenomeno che paurosamente si sta diffondendo nei nostri Stati: l’esaltazione dell’ideologia nazista e della sua forte carica razzista e antisemita. Questo è dimostrato non solo da tutta una serie di eventi delittuosi a sfondo razziale che si sono succeduti negli ultimi anni nel nostro continente ma anche da atteggiamenti chiaramente xenofobi che affiorano dalle pagine dei social network, dalle scuole e da molti altri “luoghi”  reali o virtuali della nostra società. Un fenomeno agghiacciante che merita considerazione, perché è bene ricordare che proprio sottovalutando segnali e comportamenti giudicati non rilevanti prese forma e si concretizzò l’incubo nazista.

lunedì 19 marzo 2012

BARATTO, ORO, DENARO, BANCA – COME E’ CAMBIATA L’ECONOMIA E LA VITA DELL’UOMO

Oggi vi racconterò la storia di un mito, che per qualcuno ha addirittura del divino e che ha assunto un’importanza così forte nelle nostre vite, tanto da configurare nell’immaginario collettivo il mondo come una grande banca. Già proprio così, una gigantesca banca. E’ esattamente così che oggi appare il nostro pianeta. Le banche sono tutto, hanno in mano i nostri destini, la nostra esistenza, la stessa felicità. E mi ritorna in mente una favola, purtroppo non a lieto fine, che iniziava proprio così…

C’era una volta un paese in cui tutti si conoscevano e sopravvivevano coltivando la terra e scambiandosi i frutti. C’era chi lavorava i campi, chi allevava il bestiame e chi artigianalmente produceva utensili. Con il passare del tempo, il modificarsi delle stagioni umane, il sopraggiungere della modernità, quel microcosmo in cui regnava armonia e sicurezza si è completamente trasformato. Certo con la nuova era sono migliorate non poco le condizioni di vita, i trasporti si sono velocizzati, i raccolti sono stati sottratti ai capricci della natura. Ne è risultata una maggiore prosperità. Ma un nuovo protagonista è entrato nelle vite dei popoli, il denaro.
Certo, forme di scambio ci sono sempre state in ogni comunità umana, ma lo scambio di oggetti non è sempre stato mediato dal denaro. Il denaro è diventato il protagonista delle nostra vite attraverso un lungo processo esaminato in modo esemplare dal sociologo tedesco Georg Simmel in una delle sue maggiori opere Filosofia del denaro del 1900. Egli descrive il fenomeno nella sua evoluzione storica: dallo scambio in natura si è passati allo scambio attraverso l’oro (una sostanza che possiede un valore indipendente dalla sua forma), infine al denaro come puro “simbolo rappresentativo” del valore (la carta moneta, gli assegni). L’oro, infatti, ha un valore intrinseco, indipendente dall’aspetto formale, non è un simbolo ma ha valore di per sé. Il denaro, invece, in quanto pezzo di carta, moneta o assegno, è puramente simbolo. Questo processo evolutivo, che ha visto il passaggio dallo scambio in natura all’economia monetaria, è strettamente connesso all’evoluzione delle facoltà intellettuali umane. Scrive Simmel: “La crescita delle facoltà intellettuali e lo sviluppo delle capacità di astrazione caratterizzano l’epoca in cui il denaro diventa sempre più simbolo e sempre più indifferente al proprio valore intrinseco”. L’affermazione del denaro come simbolo è avvenuta parallelamente allo sviluppo nell’uomo di una maggiore capacità di astrazione intellettuale. L’economia monetaria è, inoltre, strettamente connessa al processo di industrializzazione e urbanizzazione. Nella grande metropoli, infatti, non è possibile lo scambio diretto di beni, ogni scambio è mediato dal denaro. L’economia monetaria si radica solo in quelle società dove ogni oggetto, ogni attività o prestazione possano essere tradotte in un astratto valore di scambio e dove sia possibile effettuare un confronto. Nel nostro sistema, ad esempio, il servizio prestato da un medico, la lezione di un insegnante, un litro di latte sono entità confrontabili perché tutte possiedono un valore di scambio e possono essere quantificate in termini monetari. Il denaro è l'espressione dell’intellettualismo razionale metropolitano ed è qualcosa di assolutamente impersonale.

La mediazione del denaro rende inoltre possibile, almeno in teoria, il raggiungimento di fini illimitati. Ciò ha determinato profonde implicazioni sociologiche che Simmel esprime nei termini di cinismo e atteggiamento blasé. Chi è il cinico? Il cinico è colui che prova un’intima soddisfazione quando riesce a dimostrare che ciò che si ritiene comunemente dotato di alto valore spirituale è in realtà riconducibile ai valori più bassi (istinti animali, interessi economici). E ovviamente il fatto che nella nostra era ogni valore sia ridotto a puro valore di scambio favorisce questo atteggiamento. Invece, chi è il blasé? Il blasé è colui che, a differenza del cinico, non avverte differenze tra i valori: “Il blasévede tutte le cose in una tonalità per così dire opaca e grigia e le sente indegne di suscitare una reazione…gli stimoli troppo forti privano i nervi di ogni capacità di reazione”. La possibilità di ottenere tutto ciò che si desidera senza sforzo finisce per rendere qualsiasi fine privo di senso. Simmel parla di “ottundimento delle capacità di discriminazione” come dell’essenza dell’atteggiamento blasé. Nella metropoli moderna siamo sollecitati da un’infinità di stimoli e la quantità finisce per abbassare la qualità, per cui non avvertiamo più la differenza tra essi e li percepiamo identici. E’ un inarrestabile processo di disindividuazione, che comporta il prevalere nell’individuo dell’aspetto oggettivo sul soggettivo, del profitto e dell’esteriorità sui valori più intimi e personali. Ciò si riflette nella sfera della cultura e dei rapporti umani: “Il rapporto del singolo con gli altri uomini ripete soltanto il rapporto dell’uomo con le cose mediato dal denaro”. L’uomo tende a scomparire del tutto, insomma.
L’esempio definito del carattere meccanico dell’economia moderna è il distributore automatico; in esso la mediazione umana viene esclusa completamente anche dalla vendita al dettaglio, che da sempre era fondata sul rapporto interpersonale; l’equivalente del denaro viene meccanicamente trasformato in merce”. Una metafora inquietante. Tutto è misurabile e calcolabile, come in una formula matematica. La cultura della razionalità permea ogni aspetto della nostra vita e ci troviamo, come in una gabbia, impossibilitati a sottrarci al meccanismo. Oggi questa gabbia è la banca, che incarna l’economia monetaria dell’epoca contemporanea. Tuttavia, resiste qualcosa in noi che non può essere automatizzato perché fa parte della natura umana. E ritroviamo questo aspetto quando ci fermiamo e per un attimo usciamo fuori dal turbine della quotidianità. Questo aspetto è la metafora del cuore.