L’ennesimo addio a un giovane protagonista dello sport italiano. Fa male dover salutare così un ragazzo. Improvvisamente e crudelmente. Senza un motivo. Senza risposte. Sì, perché la vita sembra non dover mai finire, soprattutto per uno sportivo, incarnazione ed emblema della forza fisica e della salute. Tanti i campioni che ci sono stati strappati via. E con loro se ne sono andate le imprese, che sarebbero potute essere e che non sono state, oppure i ricordi di un tempo, gesta memorabili e firme da eroe, che indelebili sopravvivono nel cuore di chi le ha vissute. Questa una citazione di Eschilo di Eleusi, poeta greco: “Tutto quanto il futuro io conosco perfettamente fin d'ora, né mi giungerà inatteso alcun dolore. Bisogna sopportare il meglio possibile la porzione di sorte che ci è assegnata, sapendo che invincibile è la forza della necessità”. Parole sagge, sapienza sconfinata. Ma è così difficile accettare la decisione del fato. Dura è accettare la sconfitta, quando a perdere è un ragazzo di neanche 26 anni. Il dramma di Piermario Morosini, giocatore del Livorno morto ieri pomeriggio all’ospedale di Pescara dopo il malore avvertito durante la gara della sua squadra con il club abruzzese, è solo l’ultimo di una lista di morti improvvise in campo: dal '69 a oggi, Taccola, Curi, Ceccotti, Calonaci, Greco. In campo internazionale, negli ultimi anni: Foè, Serginho, Puerta, O’Donnell, King, Jarque, Wleh, Idahor Opoku, Matsuda, Elejiko, Venkatesh. Questo per quanto riguarda il calcio. Ma non dimentichiamo la recente scomparsa di Bovolenta, il pallavolista stroncato da un malore durante una partita di B2 con la sua Volley Forlì.
Le cronache calcistiche, dal 1889 ad oggi, documentano ben 88 casi di ragazzi morti in campo o negli spogliatoi per arresti cardiaci. Scomparse in certi casi simili, in altre diverse, ma in ogni caso accomunate dal triste binomio calcio-morte. E non scordiamo gli sportivi deceduti a seguito di malattie: Fulvio Bernardini, morto nel 1984 per il morbo di Gehrig, e Andrea Fortunato, difensore della Juventus, ammalatosi di leucemia a soli 23 anni e morto il 25 aprile 1995 a causa di una polmonite quando la malattia stava quasi per essere sconfitta. A soli 42 anni, nel 2002, muore Gianluca Signorini, è ancora il morbo di Lou Gehrig a infierire nello sport. Questi i nomi più celebri ma la lista sarebbe ancora lunga. Pur non conoscendo le cause che hanno portato agli arresti cardiaci in campo e a contrarre la Sclerosi laterale amiotrofica (nella quale si è registrato un indice di correlazione piuttosto alto tra calciatori, ex-calciatori e malattia, forse per i ripetuti traumi alle gambe, i colpi di testa dati al pallone, i farmaci, ma in campo medico siamo ancora nel regno della pura ipotesi), suscita preoccupazione la frequenza di episodi così tragici. Qualcuno pensa al caso o a un’impietosa sentenza del fato. E forse è così. Ma come un tuono, pauroso e inaspettato, nel mezzo di un temporale, risuonano le parole che Zdenek Zeman pronunciò dell’ormai lontano 1998 scuotendo fortemente il mondo del calcio: “Il calcio deve uscire dalle farmacie e dagli uffici finanziari”. Non sappiamo ancora se l’alta incidenza di quella malattia e la recente frequenza di arresti cardiaci di giovani sportivi siano dovuti all’assunzione di farmaci. Non possiamo dirlo. Ma abbiamo il dovere di chiedercelo. Un interrogativo inquietante, che squarcia il silenzio angosciosamente calato su tutti gli stadi d’Italia ieri pomeriggio. Ancora una volta.
Democrito diceva che “tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità”. Baruch Spinoza, molti secoli più tardi, avrebbe scritto: “Il mondo è un effetto necessario della natura divina, e non è stato fatto per caso”. Necessità o caso. Destino o tragica fatalità. Provvidenza divina o natura matrigna. Questi gli antipodi che, dall'inizio della storia, hanno diviso la mente dell’uomo quando ha cercato di dare risposta a eventi inspiegabili. Già, perché la nostra mente rigetta l’idea che una sorte così avversa possa toccare casualmente qualsiasi vita. Respingiamo l’inspiegabile e l’ineluttabile. E ci rifugiamo nel pensiero del disegno divino o della natura che agisce necessariamente e finalisticamente. Respingiamo l’idea della casualità, quella perversa immagine della natura o di un’entità divina che “gioca a dadi” con le nostre vite. Tutto può essere, ogni spiegazione ha il suo fascino e porta con sé quella dose di speranza di cui l’umanità del nostro essere ha bisogno. Ma non sappiamo quale sia la risposta. Nessuno ha mai avuto e mai avrà la chiave per svelare il senso di simili non-sensi.
Nessun commento:
Posta un commento