Si parla spesso di "pregiudizi" per descrivere un'infinità di situazioni sociali. Ma sappiamo realmente cosa siano i "pregiudizi", quale ne sia la fonte, se ne siamo noi stessi vittime?
Utilizziamo spesso il termine “pregiudizio” in un’accezione negativa per descrivere un atteggiamento di uno o più individui potenzialmente nefasto per la convivenza sociale. In realtà, il significato della parola è assai più ampio. Non direi neutrale, perché ha implicazioni soggettive molto forti e una spiccata radicalità sia in un senso che nell’altro. Il pregiudizio è essenzialmente un atteggiamento, che può essere di favore o sfavore nei confronti dell’altro gruppo, anche se comunemente lo intendiamo come una posizione negativa verso gli altri, fonte di discriminazione e di razzismo. Si tratta di una conoscenza intergruppo, come lo sono gli stereotipi e la distanza sociale, ossia tipologie di conoscenze largamente condivise che hanno per oggetto interi gruppi e maturano nel corso dell’interazione sociale.
Nella seconda metà del Novecento gli studi di psicologia hanno dimostrato come questo genere di conoscenze, sebbene soggette a forti distorsioni cognitive, non siano del tutto destituite di fondamento. L’opera di G.W. Allport La natura del pregiudizio ha portato a una riabilitazione delle conoscenze intergruppo in quanto ha mostrato come le distorsioni presenti nei nostri ragionamenti rispondano a meccanismi cognitivi normali, che tutti possiedono e mettono in atto, e come la maggior parte degli stereotipi contenga un “nocciolo di verità” sul quale ovviamente si costruiscono convinzioni errate. L’idea che nessuno sia immune dal pregiudizio e che i processi mentali siano naturalmente soggetti a errore è un’acquisizione recente nella storia della scienza. Essa si è imposta in psicologia sociale solo quando, con l’affermarsi della psicologia cognitiva, ha cominciato a scricchiolare il modello perfetto dell’individuo razionale, immune da errori e capace di operazioni mentali precise.
Nella seconda metà del Novecento gli studi di psicologia hanno dimostrato come questo genere di conoscenze, sebbene soggette a forti distorsioni cognitive, non siano del tutto destituite di fondamento. L’opera di G.W. Allport La natura del pregiudizio ha portato a una riabilitazione delle conoscenze intergruppo in quanto ha mostrato come le distorsioni presenti nei nostri ragionamenti rispondano a meccanismi cognitivi normali, che tutti possiedono e mettono in atto, e come la maggior parte degli stereotipi contenga un “nocciolo di verità” sul quale ovviamente si costruiscono convinzioni errate. L’idea che nessuno sia immune dal pregiudizio e che i processi mentali siano naturalmente soggetti a errore è un’acquisizione recente nella storia della scienza. Essa si è imposta in psicologia sociale solo quando, con l’affermarsi della psicologia cognitiva, ha cominciato a scricchiolare il modello perfetto dell’individuo razionale, immune da errori e capace di operazioni mentali precise.
In passato, specie nel dopoguerra, si riteneva che stereotipi e pregiudizi fossero il risultato di qualcosa di patologico, un pensiero malato e distorto. Un classico nella storia della sociologia è la serie di studi condotti dagli esponenti della Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer e colleghi) sui pregiudizi e l’antisemitismo, tra i quali spicca per fama quello su “ La personalità autoritaria”. Si tratta di una ricerca pubblicata nel 1950 da cui emerge come i pregiudizi siano conoscenze patologiche prodotte da un’educazione sbagliata. Adorno si avvale del contributo della psicoanalisi freudiana per capirne a fondo i meccanismi. Riesce così a svelare come il bambino interiorizzi gradualmente e in modo inconscio l’autorità della società tramite l’interiorizzazione dell’autorità paterna. La conclusione è che gli individui antidemocratici possiedono un tipo particolare di personalità e provengono, nella maggior parte dei casi, da famiglie in cui i rapporti tra genitori e figli risultano caratterizzati da elementi di dominio, sottomissione e frustrazione. All’origine della personalità autoritaria vi sarebbe, dunque, un’educazione repressiva per cui il bambino cresce serbando una forte ostilità nei confronti dei genitori autoritari ma, non potendo ribellarsi, impara a identificarsi con l’autorità paterna e convoglia tutta la sua energia aggressiva sui deboli. La ricerca mostra anche una stretta connessione tra personalità e struttura sociale, l’influenza del modello culturale globale a sfondo fascista sulla formazione individuale. L’individuo pieno di pregiudizi, sottolinea Adorno, “è da considerare in larga parte il risultato della nostra civiltà. La sproporzione crescente tra i vari “agenti” psicologici interni alla personalità globalmente intesa viene senz’altro rinforzata da tendenze della nostra cultura quali la divisione del lavoro, la crescente importanza di monopoli e istituzioni e l’idea dominante di mercato, di successo e di competizione”.
Dieci anni più tardi, nel 1960, è Milton Rokeach a dedicare i suoi studi ai pregiudizi. Egli ne attribuisce la causa a un’ampia gamma di fattori (tra cui disturbi mentali cognitivi, chiusura mentale). Nel libro “The open and closed mind” distingue gli individui con una mente aperta da quelli in cui predomina una chiusura mentale. Questi ultimi si costruirebbero giudizi distorti sulla realtà sociale e svilupperebbero atteggiamenti intransigenti e intolleranti verso chi possiede opinioni diverse.
Altre ricerche hanno individuato una possibile causa sociale dei pregiudizi, sottolineando come il disagio socio-economico, l’aggressività, i conflitti interclasse, la crisi dei valori possano concorrere alla diffusione di intolleranza e sospetto. L’economista e politico svedese Gunnar Myrdal, nella sua opera del 1944 sul razzismo negli Stati Uniti, intitolata “An American dilemma. The Negro Problem and Modern Democracy”, ha mostrato come, a suo avviso, l’ignoranza giochi un ruolo di primissimo piano nella formazione di pensieri distorti: “Tutte le forme di conoscenza e di ignoranza tendono sempre all’opportunismo o divengono tanto più opportuniste quanto meno sono soggette al controllo e alla verifica di una valida ricerca imperniata su fatti empirici”.
Il fattore sociale è importante per capire il fenomeno del pregiudizio, ma da solo non basta. Così come la spiegazione psicoanalitica, che non convince del tutto e palesa difetti di parzialità e di metodologia.
Gli studi finora esaminati sono, sotto certi aspetti, ancora attuali e di grande interesse ma hanno mostrato con gli anni delle debolezze strutturali soprattutto per quanto riguarda la loro ipotesi di partenza: la convinzione che i pregiudizi interessino solo personalità viziate e celino un pensiero patologico e malato. Nell’immediato dopoguerra una tale analisi non poteva che apparire rassicurante perché istillava negli animi la convinzione che il diffondersi delle ideologie nazifasciste e dei regimi totalitari fosse solo una parentesi, tragica e buia, nella storia dell’uomo, l’esito perverso e per certi versi casuale di una combinazione di fattori che univano la componente patologica a uno scenario sociale fertile ad accoglierla e a farla germogliare. E invece gli studi più recenti, soprattutto di psicologia cognitiva, hanno dimostrato che i pregiudizi non sono appannaggio esclusivo di menti malate ma sono ampiamente diffusi anche tra individui perfettamente sani e istruiti. Insomma, nessuno è immune totalmente dal pregiudizio. Basti pensare a quante volte dipingiamo le altre culture con colori che non useremmo mai per la nostra. La mia ovviamente è una metafora, che vuol mettere in evidenza la tendenza presente nella mente umana a descrivere gli altri in modo “distorto”. E’ assai inquietante il recente studio di E. Aronson che ha parlato dei “pregiudizi delle menti aperte”, assai pericolosi perché molto sottili e capaci di celarsi dietro pensieri apparentemente neutrali. Questo è il cosiddetto “razzismo simbolico”, il più pericoloso e difficile da estirpare, nonché oggi il più diffuso, perché assume una forma diplomatica e sofisticata, si nasconde dietro frasi innocue, all’apparenza addirittura sagge, in cui però si evidenzia e si comunica l’inferiorità dell’Altro. Come quando, ad esempio, si afferma di tollerare l’omosessualità ma al contempo si sostiene che non è etico estendere eguali diritti a tutte le coppie; oppure quando si respinge lo stereotipo dell’africano come primitivo e intellettualmente inferiore ma si evidenzia l’incompatibilità della sua cultura con la nostra. La quotidianità è piena di pregiudizi abilmente occultati dietro discorsi all’apparenza neutrali e obiettivi, perle di saggezza, dispensate da tutti noi che ci crediamo portatori di una verità indiscutibile e universale.
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