Perchè Musica delle Sfere?

Devo all'affascinante teoria pitagorica l'ispirazione del titolo di questo blog. Secondo il filosofo di Samo, il movimento dei corpi celesti è regolato da leggi geometriche, risultando perciò armonico e perfetto. Muovendosi, gli astri emettono una musica sublime e celestiale, definita "armonia delle sfere", che l'orecchio umano non può percepire a causa dell'assuefazione, un fenomeno psicologico che rende inavvertito alla coscienza un suono continuo. Il richiamo alla sapienza antica vuole essere il punto di partenza di un diario online che propone una riflessione, e se vorrete un dibattito costruttivo, su eventi significativi per il percorso storico e umano. La mia ambizione è mettere a disposizione uno spazio dove ogni fatto che ci riguardi possa essere analizzato sotto la lente delle scienze dell'uomo.



giovedì 20 dicembre 2012

LA MASCHERA O VELO INGANNATORE DEL MONDO - SUGGESTIONE SCHOPENHAUERIANA


Sensazione di mistero e di oscurità. Velo sottile ed enigmatico. Barriera di confine tra il conosciuto e l’arcano. Da sempre la maschera ha esercitato un indubbio fascino nell’immaginario collettivo, assurgendo sin dall’antichità a simbolo assoluto dell’ignoto. Non a caso il suo utilizzo risale alla preistoria. Un tempo antico, quasi impalpabile, a partire dal quale la maschera è divenuta strumento irrinunciabile e protagonista di rituali religiosi, rappresentazioni teatrali e infine feste popolari. Medium di comunicazione tra l’uomo e la divinità, simbolo associato al culto degli antenati, espediente per mettersi in contatto con entità soprannaturali. La sua straordinaria energia metaforica non poteva non ispirare il genio umano che, sin dalle prime espressioni artistiche, ha saputo farne uso nelle più disparate rappresentazioni.
 
 
 
 
 

 Topos ricorrente nell’arte, nella letteratura, nella poesia, nel cinema, nel teatro, la maschera è sempre stata fortemente radicata nel pensiero umano, tanto che la filosofia l’ha utilizzata come chiave per l’accesso a verità altrimenti astruse e inintelligibili. L’esempio più suggestivo ce lo dà la riflessione filosofica di Arthur Schopenhauer. Già il titolo della sua opera più nota, Il mondo come volontà e rappresentazione, reca in sé forti suggestioni metaforiche. La rappresentazione è un’allusione al palcoscenico, alla maschera, alla finzione. “Il mondo è una mia rappresentazione: ecco una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, anche se l’uomo soltanto è capace di accoglierla nella sua coscienza riflessa e astratta: e quando egli fa veramente questo, la meditazione filosofica è penetrata in lui. Diventa allora per lui chiaro e certo che egli non conosce né il Sole, né la terra, ma sempre soltanto un occhio, che vede un Sole, una mano, che sente una terra; che il mondo, che lo circonda, non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre  e soltanto in rapporto a un altro, a colui che lo rappresenta, il quale è lui stesso”. Queste le parole del filosofo all’inizio del suo libro più illustre. Una sintesi del messaggio di verità che il suo lavoro vuole svelare. Una verità dal sapore antico, che ha attraversato l’intero cammino filosofico fino all’epoca contemporanea: nessun uomo è in grado di uscire da se stesso e vedere la realtà per ciò che è veramente, nella sua essenza.
 
Il mondo è mera rappresentazione determinata unicamente dagli schemi mentali dell’individuo: spazio, tempo e rapporto di causa-effetto, in modo simile all’universo kantiano. La realtà  ci appare stabile e indipendente ma non è altro che una configurazione di rappresentazioni mentali: “…Tutto quanto appartiene e può appartenere al mondo ha inevitabilmente per condizione il soggetto ed esiste solo per il soggetto. Il mondo è rappresentazione”. Il fenomeno, infatti, è, per definizione, illusione e apparenza, è ciò che la filosofia indiana chiamava “velo di Maya”, ossia una maschera che copre  il volto reale del mondo. Il passo che riprende dagli antichi testi dei Veda e dei Purana è assai suggestivo: “E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista , né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente”. Come la citazione platonica “gli uomini non vivono che in un sogno”. O la romantica digressione shakespeariana “noi siamo di tale stoffa, come quella di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è chiusa in un sonno”. E, infine, l’intuizione di Schopenhauer. Un lampo geniale, un’immagine che sa di opera d’arte: il filosofo assimila le forme a priori, mediante cui conosciamo il mondo esterno (spazio, tempo, causalità), a dei vetri sfaccettati che deformano la nostra visione delle cose e  rendono il mondo esterno pura fantasmagoria. Una realtà irreale, un impalpabile ossimoro che si traveste da sogno. Così, nell’apparenza fenomenica sembra indistinguibile il sogno dalla veglia, le illusioni oniriche dalle percezioni quotidiane: “Sarà concesso anche a me di esprimermi con una similitudine: la vita e il sogno sono le pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama la vita reale ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) è terminata e giunge il tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora pigramente, senza ordine e connessione, a sfogliare ora qua ora là una pagina già letta, ora una ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro…”. Al di là della maschera onirica, però, si nasconde la vera realtà che Schopenhauer, a differenza di Kant, ritiene possibile raggiungere e afferrare. L’uomo, infatti, non è solo conoscenza e intelletto, l’uomo è soprattutto “volontà di vivere”, un impulso fortissimo che ci spinge ad agire e a esistere. E’ la radice e l’essenza del mondo. Ecco, questa brama irresistibile fa cadere la maschera e squarcia il “velo di Maya” che cela il luogo dell’essere autentico.

Essenza segreta del genere umano e dell’intero universo, la volontà di vivere è la soluzione dell’enigma, la chiave per accedere al regno dell’assoluto. Essa svela l’arcano e l’identità della realtà. La maschera cade, il mistero si dissolve, l’universo ci mostra il suo volto. Ecco la verità in tutta la sua pienezza, senza finzioni e artefatti.


 

 Foto di Antonello Del Raso
http://www.fotografart.org


sabato 1 settembre 2012

IL MODELLO UMANISTICO DEL SAPERE

La storica Riforma dell'Istruzione del 1923, ideata da Giovanni Gentile, per conto del governo Mussolini era animata dalla profonda convinzione di ripristinare l'insegnamento umanistico come colonna portante dell'intero sistema educativo. Infatti, la sua riforma toccò soprattutto la scuola superiore in cui il ginnasio-liceo avrebbe dovuto primeggiare, quale formazione elitaria destinata a preparare la futura classe dirigente italiana.

L'importanza della cultura umanistica poco più tardi, negli anni Trenta, venne ribadita da un movimento pedagogico sorto nell'ambito dell'Università di Chicago per opera di Hutchins, rettore dello stesso ateneo. Il movimento era imperniato sul programma dell'educazione liberale che si richiamava alla tradizione e ai valori dei classici.
L'educazione, secondo Hutchins, è compimento della libertà interiore, progressiva liberazione attraverso il sapere e la cultura, sulla base dell'insegnamento aristotelico per il quale la virtù e la felicità dell'uomo collimano con la vita teoretica. Egli riteneva che l'educazione fondata sulla coltivazione delle virtù intellettuali fosse "la migliore educazione che si possa avere". Di qui la tesi dell'unità della cultura da realizzarsi attraverso la lettura delle grandi opere prodotte dall'umanità, quei libri che sono diventati "classici" e che, essendo l'espressione dell'immenso patrimonio condiviso dalla nostra civiltà, possono darci il senso profondo della nostra umanità.

Jacques Maritain, pedagogista cattolico, si inserì in questo clima con l'opera Educazione al bivio (1932). Il bivio epocale cui si trova l'educazione riguarda il suo stesso fine. Da un lato, integrazione dell'individuo nella vita sociale, dall'altro formazione dell'uomo nella sua interezza, come sintesi di anima e corpo, natura e spirito. Il filosofo francese ritiene che quest'ultima sia la vera missione dell'educazione dal cui ambito occorre eliminare ogni forma di pragmatismo, sociologismo, intellettualismo. La sua proposta è un nuovo curriculum formativo imperniato sulle "sette colonne portanti del sapere: le discipline del trivio e del quadrivio, rielaborate in chiave moderna. Il senso del suo modello pedagogico non è un mero richiamo nostalgico ai valori del passato ma la necessità profonda di ristabilire una chiara gerarchia di valori in campo educativo, che possa contribuire alla conoscenza della verità.

sabato 21 aprile 2012

IL MONDO 3: I PENSIERI E LE IDEE DELL'UOMO

Ritorna nella nostra epoca l’incanto della teoria platonica. In tutta la sua forza, in tutta la sua suggestione. Un fascino senza tempo, perché il frutto del genio umano non sa mai di antico, esso è sempre attuale, come una bella favola che si perpetua di generazione in generazione.
Il mondo delle idee, questo “luogo al di là del cielo” dove risiederebbero gli esemplari perfetti ed eterni delle cose, la sede della sostanza e dell’essere, si riaffaccia nella teoria di Karl Popper, nell’ultima fase del suo pensiero. Popper muore a Londra nel 1994, siamo, dunque, alle soglie del nuovo millennio, e l’ultimo sviluppo del suo sistema è un esito realistico e oggettivistico coronato dalla suggestiva teoria dei tre mondi.

Il filosofo parla dell’esistenza di tre “dimensioni”:
il Mondo 1 è il mondo delle entità fisiche;
il Mondo 2 è il mondo delle nostre esperienze soggettive, ossia dei nostri pensieri, delle nostre speranze e paure;
il Mondo 3 è fatto dei prodotti dei nostri pensieri, speranze e paure, cioè è fatto dei prodotti del Mondo 2 (che è il mondo dell’animo umano e della mente).

Il terzo mondo è “del tutto indipendente sia dall’uomo sia dal tempo”. Di qui l’affinità con il mondo delle idee platonico. C’è, però, una fondamentale differenza che rende originale la concezione di Popper ed è il carattere essenzialmente storico e umano del Mondo 3. Il Mondo tre è il mondo dei pensieri e delle opere create dall’uomo. “Il Mondo 3 ha una storia. E’ la storia delle nostre idee: non solo una storia della nostra scoperta, ma anche una storia di come le abbiamo create, e come esse abbiano reagito su di noi, e come noi abbiamo reagito a questi prodotti della nostra stessa opera. Questo modo di considerare il mondo 3 ci permette anche di inscriverlo nell’ambito di una storia evoluzionistica che riguarda l’uomo come animale”.

giovedì 19 aprile 2012

IL NAUFRAGIO DELL'ILLUSIONE METAFISICA

La mente dell’uomo oscilla perennemente tra il limite e l’illimitato, tra la consapevolezza della propria finitudine e le smanie di onnipotenza. Pur avvertendo, infatti, l’esistenza di confini invalicabili che mai potrà oltrepassare, essa è portata a spingere le ali della fantasia sempre più in alto o a interrogarsi su problemi che l’umana comprensione sembra non poter abbracciare. Sì, perché il nostro intelletto è irresistibilmente attratto dall’ignoto e abbandona spesso il mondo fenomenico e limitato per spaziare verso i confini dell’assoluto e dell’incondizionato, salvo poi rendersi conto dell’impossibilità di raggiungere spiegazioni soddisfacenti.

Suggestiva la metafora costruita da Kant nella Critica della ragion pura che assimila l’intelletto umano a una colomba che si libra in volo lamentandosi però degli impedimenti dell’aria e sogna di poter volare anche senza di essa, non rendendosi conto però che l’aria costituisce sì una resistenza al suo volo ma ne è anche la condizione essenziale. Senza di essa, infatti, cadrebbe a terra. Esattamente come l’uomo ripiomba violentemente nella dura realtà quando si avventura nei meandri insolubili delle questioni metafisiche su cui la scienza può avanzare solo deboli ipotesi.

Siamo davvero condannati a urtare contro un muro insormontabile, rappresentato da quelle che Karl Jaspers chiama “situazioni limite”, oppure esiste la possibilità concreta di attingere a una conoscenza assoluta?
C'è da dire che le capacità scientifiche appaiono sconfinate. La ricerca ha fornito risposte che fino a qualche tempo fa sembravano inimmaginabili. E il progresso, in ogni campo dello scibile, è sempre più dilagante e sorprendente. Tuttavia, ci sono degli interrogativi a cui l’uomo, sin dalla sua comparsa sulla Terra, ha cercato di dare risposta, senza mai approdare a una certezza assoluta. Dubbi ancestrali che tormentano il nostro essere. Dilemmi senza fine, ermetici e insolubili. Ritorna, così, la scissione apparentemente non ricomponibile tra il mondo fenomenico, che la scienza può analizzare, e l’extrafenomenico, inconoscibile e sfuggente. E, a questo proposito, assai affascinante è la metafora kantiana che assimila la scienza alla terraferma di un’isola e l’ambizione dello scienziato di spingersi oltre l’esperibile al desiderio del navigante di andare alla ricerca infinita di nuovi mondi: “questo territorio è un’isola che la natura ha racchiuso in confini immutabili. E’ il territorio della verità (nome seducente), circondata da un ampio e tempestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la parvenza (l’illusione metafisica), dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiacci creano ad ogni istante l’illusione di nuove terre e, generando sempre nuove ingannevoli speranze nel navigante che si aggira avido di nuove scoperte, lo sviano in avventurose imprese che non potrà né condurre a buon fine né abbandonare una volta per sempre”.

martedì 17 aprile 2012

PERVERSIONI DELLA MENTALITA' DI GRUPPO: L'ERRORE DI KENNEDY

Da sempre la coesione viene percepita come un elemento positivo all’interno di un gruppo. Un gruppo coeso è straordinariamente produttivo e in grado di affrontare le difficoltà con maggiore possibilità di successo. I singoli membri si sentono molto sicuri, hanno una forte autostima e un maggiore equilibrio, perché sanno di poter contare gli uni sugli altri e di costituire un unico organismo vivente. Non tutti sanno, però, che un elevato livello di coesione potrebbe rivelarsi controproducente e avere effetti deleteri per la stessa vita del gruppo. Si potrebbe, ad esempio, registrare un calo vertiginoso del rendimento, conseguenza psicologica di quella condizione definita “beata improduttività”: un eccessivo benessere del gruppo porta a un calo nel raggiungimento degli obiettivi perché le persone “si cullano”, per così dire, nell’idea di lavorare insieme e traggono forza dal sostenersi a vicenda.

L’effetto più pericoloso della coesione è, però, la “mentalità di gruppo”, ossia un pensiero largamente condiviso e resistente alle critiche, che si autoconvalida facendo leva sul consenso interno. Un pensiero di questo tipo perde facilmente di vista l’obiettività e può dar luogo a scelte disastrose. La storia ci regala diversi esempi di decisioni importanti, prese in ambito politico e militare, clamorosamente infelici. E’ stato Irving Janis, alla fine degli anni Sessanta, a studiare questo “effetto perverso” della coesione esaminando una serie di decisioni rivelatesi fallimentari. Famoso il caso dell’invasione della Baia dei Porci nel 1961. L’allora Presidente degli Stati Uniti John Kennedy decise, consigliato dai suoi uomini, di far sbarcare 2 000 esuli cubani anticastristi a Cuba sotto l’appoggio americano. Una decisione che a chiunque dall’esterno parve assurda e sconsiderata. L’esito negativo era insomma facilmente prevedibile anche dai meno esperti. Gli invasori, infatti, vennero catturati e uccisi.

La scelta si rivelò disastrosa nonostante fosse stata presa da persone di estrema competenza e tutt’altro che incapaci. Perché ciò accadde? Perché persone di grande intelligenza e indubbia esperienza furono vittime di un abbaglio così clamoroso? Secondo lo studio di Janis, fatale, per Kennedy e i suoi consiglieri, fu il fatto di decidere collettivamente. In un gruppo caratterizzato da un’elevata coesione è difficile che possano sorgere discussioni proprio perché i membri tendono a vedere le cose allo stesso modo e hanno un’intesa perfetta. Non c’è dunque scambio di opinioni e manca la critica, che è il sale di ogni sano confronto. Proprio l’indebolimento del senso critico portò Kennedy  e i suoi uomini a perdere di vista l’obiettività e a credere eccessivamente nelle possibilità di successo di un’impresa ambiziosa.

domenica 15 aprile 2012

ANCORA FERMO IL CUORE DEL CALCIO


L’ennesimo addio a un giovane protagonista dello sport italiano. Fa male dover salutare così un ragazzo. Improvvisamente e crudelmente. Senza un motivo. Senza risposte. Sì, perché la vita sembra non dover mai finire, soprattutto per uno sportivo, incarnazione ed emblema della forza fisica e della salute. Tanti i campioni che ci sono stati strappati via. E con loro se ne sono andate le imprese, che sarebbero potute essere e che non sono state, oppure i ricordi di un tempo, gesta memorabili e firme da eroe, che indelebili sopravvivono nel cuore di chi le ha vissute. Questa una citazione di Eschilo di Eleusi, poeta greco: “Tutto quanto il futuro io conosco perfettamente fin d'ora, né mi giungerà inatteso alcun dolore. Bisogna sopportare il meglio possibile la porzione di sorte che ci è assegnata, sapendo che invincibile è la forza della necessità”. Parole sagge, sapienza sconfinata. Ma è così difficile accettare la decisione del fato. Dura è accettare la sconfitta, quando a perdere è un ragazzo di neanche 26 anni. Il dramma di Piermario Morosini, giocatore del Livorno morto ieri pomeriggio all’ospedale di Pescara dopo il malore avvertito durante la gara della sua squadra con il club abruzzese, è solo l’ultimo di una lista di morti improvvise in campo: dal '69 a oggi, Taccola, Curi, Ceccotti, Calonaci, Greco. In campo internazionale, negli ultimi anni: Foè, Serginho, Puerta, O’Donnell, King, Jarque, Wleh, Idahor Opoku, Matsuda, Elejiko, Venkatesh. Questo per quanto riguarda il calcio. Ma non dimentichiamo la recente scomparsa di Bovolenta, il pallavolista stroncato da un malore durante una partita di B2 con la sua Volley Forlì.

Le cronache calcistiche, dal 1889 ad oggi, documentano ben 88 casi di ragazzi morti in campo o negli spogliatoi per arresti cardiaci. Scomparse in certi casi simili, in altre diverse, ma in ogni caso accomunate dal triste binomio calcio-morte. E non scordiamo gli sportivi deceduti a seguito di malattie: Fulvio Bernardini, morto nel 1984 per il morbo di Gehrig, e Andrea Fortunato, difensore della Juventus, ammalatosi di leucemia a soli 23 anni e morto il 25 aprile 1995 a causa di una polmonite quando la malattia stava quasi per essere sconfitta. A soli 42 anni, nel 2002, muore Gianluca Signorini, è ancora il morbo di Lou Gehrig a infierire nello sport. Questi i nomi più celebri ma la lista sarebbe ancora lunga. Pur non conoscendo le cause che hanno portato agli arresti cardiaci in campo e a contrarre la Sclerosi laterale amiotrofica (nella quale si è registrato un indice di correlazione piuttosto alto tra calciatori, ex-calciatori e malattia, forse per i ripetuti traumi alle gambe, i colpi di testa dati al pallone, i farmaci, ma in campo medico siamo ancora nel regno della pura ipotesi), suscita preoccupazione la frequenza di episodi così tragici. Qualcuno pensa al caso o a un’impietosa sentenza del fato. E forse è così.  Ma come un tuono, pauroso e inaspettato, nel mezzo di un temporale, risuonano le parole che Zdenek Zeman pronunciò dell’ormai lontano 1998 scuotendo fortemente il mondo del calcio: “Il calcio deve uscire dalle farmacie e dagli uffici finanziari”. Non sappiamo ancora se l’alta incidenza di quella malattia e la recente frequenza di arresti cardiaci di giovani sportivi siano dovuti all’assunzione di farmaci. Non possiamo dirlo. Ma abbiamo il dovere di chiedercelo. Un interrogativo inquietante, che squarcia il silenzio angosciosamente calato su tutti gli stadi d’Italia ieri pomeriggio. Ancora una volta.

Democrito diceva che “tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità”. Baruch Spinoza, molti secoli più tardi, avrebbe scritto: “Il mondo è un effetto necessario della natura divina, e non è stato fatto per caso”. Necessità o caso. Destino o tragica fatalità. Provvidenza divina o natura matrigna. Questi gli antipodi che, dall'inizio della storia, hanno diviso la mente dell’uomo quando ha cercato di dare risposta a eventi inspiegabili. Già, perché la nostra mente rigetta l’idea che una sorte così avversa possa toccare casualmente qualsiasi vita. Respingiamo l’inspiegabile e l’ineluttabile. E ci rifugiamo nel pensiero del disegno divino o della natura che agisce necessariamente e finalisticamente. Respingiamo l’idea della casualità, quella perversa immagine della natura o di un’entità divina che “gioca a dadi” con le nostre vite. Tutto può essere, ogni spiegazione ha il suo fascino e porta con sé quella dose di speranza di cui l’umanità del nostro essere ha bisogno. Ma non sappiamo quale sia la risposta. Nessuno ha mai avuto e mai avrà la chiave per svelare il senso di simili non-sensi.

sabato 14 aprile 2012

ANCHE GLI ANIMALI PENSANO



Secondo Telesio, è innegabile che nel mondo animale e vegetale esistano forme di spiritualità. Già Aristotele aveva attribuito alle piante un’anima vegetativa e agli animali un’anima sensitiva, e solo agli uomini l’intellettiva. Le tesi di Telesio è, però, peculiare perché basata su un sensismo radicale: tutta la conoscenza dell’uomo si riduce alla sensazione, infatti “il senso che sente, paragona e connette le cose simili, costituisce l’universale”. Una sensazione raffinata, quella dell'uomo, certo, ma nulla più che una sensazione. E dal momento che il pensiero si basa sulla sensibilità e dal momento che è inconfutabile la capacità percettiva degli animali, Telesio non può che concludere che anche gli animali pensano: “Si considerino le bestieesse sono fornite soltanto del senso, eppure hanno conoscenze universali non meno che gli uomini. Non si può infatti dubitare che esse riconoscono l’uomo, il leone, l’animale, la pianta e le differenze tra l’una e l’altra cosa e sanno che il fuoco riscalda e che l’aria e l’acqua sono cedevoli…”.

La tesi della similarità tra uomo e animale è poi rafforzata, a metà dell'Ottocento, dall'evoluzionismo darwiniano: "Le facoltà mentali dell'uomo e degli animali inferiori non differiscono per tipo, bensì immensamente per grado". Non vi è una dimensione metafisica estranea al mondo animale e peculiare dell'uomo. Per Darwin, l'uomo è un semplice animale, in tutti i suoi aspetti, nel corpo come nello spirito.
Non c'è ragione, dunque, nè etica nè scientifica, di stabilire una presunta superiorità di diritti che consentirebbero alla sfera umana di prevaricare e violentare il mondo naturale e animale.