Perchè Musica delle Sfere?

Devo all'affascinante teoria pitagorica l'ispirazione del titolo di questo blog. Secondo il filosofo di Samo, il movimento dei corpi celesti è regolato da leggi geometriche, risultando perciò armonico e perfetto. Muovendosi, gli astri emettono una musica sublime e celestiale, definita "armonia delle sfere", che l'orecchio umano non può percepire a causa dell'assuefazione, un fenomeno psicologico che rende inavvertito alla coscienza un suono continuo. Il richiamo alla sapienza antica vuole essere il punto di partenza di un diario online che propone una riflessione, e se vorrete un dibattito costruttivo, su eventi significativi per il percorso storico e umano. La mia ambizione è mettere a disposizione uno spazio dove ogni fatto che ci riguardi possa essere analizzato sotto la lente delle scienze dell'uomo.



sabato 31 marzo 2012

LA MEMORIA IN TRIBUNALE. FALLIBILITA' ED ERRORE

Se ci viene chiesto dove eravamo l’11 settembre del 2001 esattamente nel momento in cui a New York due aerei si schiantavano sulle Torri Gemelli provocando l’attacco terroristico più disastroso di tutti i tempi, tutti ricordiamo distintamente cosa facevamo e il luogo in cui ci trovavamo. E’ un esempio di flash bulb memory (memoria fotografica), un ricordo focalizzato su un evento specifico e dotato di particolare rilevanza che si configura così vivido e intenso da sembrare una foto perfetta del fatto. Peculiarità della memoria fotografica è la facilità di rievocazione dell’evento, più facilmente accessibile in virtù della sua distintività ed eccezionalità. Tuttavia, anche ricordi di questo genere non sono immuni da errori. Ad esempio, avremmo difficoltà a recuperare tutti i particolari del contesto originale e qualora ci riuscissimo sarebbero imprecisi e soggetti a significative distorsioni. Ciò è stato dimostrato da diversi studi che hanno evidenziato come, con il trascorrere del tempo, i ricordi di eventi eccezionali siano sempre meno precisi. Ed è tale imprecisione che rende la memoria uno strumento instabile e difficile da gestire in molte situazioni. Eppure ci si affida costantemente ad esso. I ricordi umani rappresentano un elemento di grande rilevanza in numerosi contesti. Ci si affida al flusso dei pensieri non solo nella nostra quotidianità per rievocare situazioni, emozioni, fatti personali ma anche in ambito giuridico per fatti pubblici e di interesse collettivo. Pensiamo agli interrogatori in caserma o ai processi in aula. La ricostruzione del fatto ad opera dell’imputato o dei testimoni costituisce il perno su cui si basa l’iter processuale. E non sono pochi i casi di condanne sbagliate a causa di testimonianze poco accurate o addirittura di scambi di persona. Il testimone oculare, che senza dubbio rappresenta un elemento fondamentale per la risoluzione di un caso, può essere soggetto a pericolosi abbagli. Molte ricerche hanno mostrato un’alta frequenza di errori nell’identificazione di persone sospettate di crimini. Elizabeth Loftus, psicologa americana, ha dimostrato, ad esempio,  l’enorme impatto esercitato dalle armi sulla ricostruzione dell’evento. Se assistiamo a una rapina, la nostra attenzione sarà totalmente catalizzata sull’arma da fuoco o da taglio in mano al criminale e presteremo meno attenzione ad altri particolari dell’evento, compreso l’aspetto fisico del malvivente. La stessa Loftus ha dato inizio a un filone di studi sul cosiddetto “effetto dell'informazione sbagliata” (per l’esattezza, post-event misinformation effect, ossia l’effetto di un’informazione fuorviante fornita dopo l’evento) e ha portato conferme al fatto che se i soggetti ricevono falsi dettagli su un evento cui hanno assistito sviluppano ricordi distorti. Le sue ricerche hanno anche rilevato il potere esercitato da certe tipologie di domande nel recupero di un evento vissuto. Di qui l’importanza della correttezza e neutralità delle domande poste in sede di interrogatorio. Una loro errata formulazione da parte degli inquirenti o dei procuratori può influenzare il processo di rievocazione delle informazione e causare distorsioni rilevanti nella ricostruzione del fatto. E’ stato evidenziato come anche la modifica di una piccola parte di una frase, come l’articolo, possa aumentare la probabilità di alterazione del ricordo.
La fallibilità della memoria è un problema ancora più rischioso quando a testimoniare sono i bambini perché più vulnerabili all’influenza degli altri. In particolare, sono stati evidenziati tre elementi che potrebbero determinare la costruzione di un falso ricordo: l’effetto del pregiudizio dell’intervistatore, che si verifica quando chi sta interrogando prende in esame una sola ipotesi; l’effetto delle induzioni degli stereotipi, dove chi pone la domanda la formula in maniera tale da ottenere conferma dell’idea che si è fatto; l’effetto di domande ripetute, per cui se a un bambino viene fatta più volte una stessa domanda egli tende a cambiare la risposta.

Un altro fattore di distorsione potrebbe essere lo stress anche se ancora c’è poca chiarezza al riguardo. Alcuni studi hanno mostrato che uno stress elevato in fase di codifica o recupero dell’informazione rende più difficile la rievocazione, altri hanno rilevato invece una maggiore accuratezza del ricordo. Tuttavia, non è possibile trascurare che la memoria di un evento, specie se traumatico, è soggetta all’influenza di numerosi fattori (emotivi, cognitivi, relazionali). Inoltre, essa è inevitabilmente influenzata dal significato che attribuiamo agli eventi. Ad esempio, secondo lo psicologo Frederic Bartlett sono degli schemi a guidare il processo di rievocazione del ricordo. Questi schemi sono temi generali che ricaviamo dalla nostra esperienza e che producono una distorsione sul modo in cui le nuove informazioni sono interpretate e rievocate. Il ricordo viene, cioè, a essere il risultato di una ricostruzione basata su esperienze precedenti.

E’ chiaro che, alla luce di tutta la letteratura scientifica sulla memoria, non possiamo prescindere in sede giudiziaria da un’attenta riflessione sulla sua potenziale fallibilità. La nostra mente è facilmente influenzabile e, nonostante lo straordinario potere che madre natura le ha conferito, è soggetta a distorsioni che il professionista forense non può trascurare. Il suo meccanismo è imperfetto e di questo si deve sempre tener conto anche quando la testimonianza appare verosimile e adatta a incastrarsi all’interno del puzzle in costruzione. Casi di errori giudiziari a causa di scambi di persona o di ricordi imprecisi non sono rari, soprattutto in processi in cui mancano prove concrete a carico degli imputati. Questo perché spesso non si tiene nella dovuta considerazione il complesso intreccio di fattori che può portare a una testimonianza distorta.

mercoledì 28 marzo 2012

ARTE, SPECCHIO MAGICO DELLA REALTA'

“Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”. La risposta che un giorno la regina della favola ebbe fu assai deludente e scatenò un’ira così profonda da far passare delle brutte avventure alla povera Biancaneve. Questo perché lo specchio magico non poteva mentire. Ciò che rifletteva era la verità e niente di più. Lo specchio è per antonomasia l’immagine della realtà e, per quanto deformante possa essere, non può ingannare su ciò che costituisce il tratto essenziale della figura riflessa. Non a caso nella cura del corpo ci si relaziona costantemente ad esso, quasi fosse il mentore esclusivo della nostra “opera d’arte”.
Ma il topos dello specchio è fortemente radicato anche nella tradizione artistica e letteraria. A volte ne è il protagonista (pensiamo al mito di Narciso), a volte semplice strumento, veicolo di immagini, allegoria di fantasie reali. Ogni critico d’arte sa che qualsiasi opera si trovi davanti ha a che fare con la personalità dell’autore, in quanto ne esprime le passioni interiori e la vivacità intellettuale. Tuttavia, essa riflette anche la specifica realtà storica in cui nasce e può addirittura anticiparne le tendenze, con uno sguardo al futuro.

Immergendomi nei meandri delle teorie estetiche, sono rimasta estremamente colpita dalla teoria dell’arte come specchio della realtà messa a punto dal filosofo e sociologo tedesco György Lukács, ungherese del 1885, autore di molti lavori in disparati settori, tra cui spicca su tutti Storia e coscienza di classe, ma anche L’anima e le forme e La distruzione della ragione. La sua influenza nell’ambito della riflessione estetica e della critica letteraria si concretizza, però, in opere come Teoria del romanzo, L’Estetica, Saggi sul realismo, dove elabora un’interpretazione dell'arte fondata sul concetto di realismo. Una concezione di matrice marxista che, nonostante numerosi difetti che non starò qui a esaminare, reca forti suggestioni e consente al critico estetico di assumere una diversa consapevolezza del rapporto tra opera artistica e realtà.

Credo che gli esperti d’arte, di qualsiasi settore (letteratura, cinema, teatro), trovino in Lukács non solo forti suggestioni ma anche un profondo motivo di riflessione e di critica. La sua concezione realistica si oppone sia a quella “naturalistica”, che intende riprodurre la perfetta copia fotografica della realtà, sia al “formalismo”, che aspira a realizzare la perfezione delle forme prescindendo dalla realtà.
Secondo Lukács,  invece, l’arte, esattamente come la scienza, rispecchia “la totalità della vita umana nel suo moto, nel suo svolgersi ed evolversi”. Lo strumento di cui si avvale è il “tipico”, che non va confuso con la media statistica di ciò che accade nella nostra quotidianità, anzi ne è esattamente l’opposto. Il “tipo” artistico è l’essenziale di un’epoca storica e possiede la capacità di cogliere le tendenze di sviluppo di una società: “solo se lo scrittore sa e intuisce esattamente e sicuramente che cosa è essenziale e che cosa è secondario, egli sarà in grado, anche sul piano letterario, di dare espressione all’essenziale e di configurare, a partire da un destino individuale, il destino tipico di una classe, di una generazione, di un’epoca intera. E se lo scrittore abbandona questo criterio di misura, va perduto con esso il mutuo rapporto vivente tra privato e sociale, tra individuale e típico”.

Proprio in quanto rispecchiamento fedele della realtà, l’arte è in grado di andare al di là delle opinioni etico-politiche di un autore. Esemplare il caso di Balzac, legittimista cattolico in politica e fondamentalmente reazionario, ma al tempo stesso capace di leggere e rappresentare realisticamente  il volto della sua epoca, esprimendo un pensiero progressivo e contrario alle sue stesse idee politiche.
La teoria dell’arte come rispecchiamento della realtà oggettiva reca un chiaro influsso shakespeariano, di gran fascino e straordinariamente efficace nel veicolarne il senso: tutti i grandi artisti realisti, dice Lukács, hanno obbedito al comando di Amleto, ossia tenere davanti agli occhi uno specchio e con l’aiuto dell’immagine rispecchiata promuovere l’evoluzione dell’umanità.
L'arte, dunque, come specchio magico della realtà, motore del progresso e dello sviluppo storico.

lunedì 26 marzo 2012

CHI CUSTODIRA’ CHI? IL PRESAGIO DELL'ARTICOLO 18

Mi lascia sempre più perplessa la nuova riforma del mercato del lavoro, che si appresta ad essere approvata, non senza polemiche e malumori.
Il nodo più dibattuto riguarda i licenziamenti per motivi economici, per i quali non si intende solo il caso di una comprovata crisi economica di un’azienda, ma anche motivi di gestione aziendale. Più semplicemente, se il datore di lavoro decide di sostituire il lavoro di un dipendente con uno strumento tecnologico in grado di svolgere il suo lavoro può farlo. Il governo ha assicurato che tali licenziamenti dovranno essere “fortemente motivati”. Certo. Ma, mi chiedo, chi controllerà chi? Come si può essere sicuri che il titolare di un’azienda non stia facendo i propri personali interessi o che dietro il suo licenziamento non si celi un’azione discriminatoria? Non sarà facile effettuare controlli certi e repentini, considerando il gran numero di cause di lavoro attualmente,  e anche in futuro, in corso, nonché lo scarso dispiegamento di personale e risorse in questo settore, come in molti altri.

Eh, sì, ribadisco la mia idea, già espressa qualche giorno fa. E’ la classica riforma all’italiana, scopiazzata qua e là dai tanto osannati modelli tedeschi, danesi, inglesi, svedesi, americani, cui manca un attributo fondamentale che solo potrebbe garantire la riuscita del progetto e lo sblocco del mercato del lavoro: l’originalità. Ogni Paese è una realtà sociale, politica, economica  e culturale a sé. Non si possono assumere dei modelli senza calarli poi nello specifico contesto di riferimento. Gettare un alieno in un habitat ostile può portare a conseguenze disastrose per l’intero sistema. Pensare e attuare un progetto di riforma intelligente significa situarlo nel suo ambiente culturale. E questo non è stato fatto.

Mi chiedo chi controllerà efficacemente i datori di lavoro? Chi ci assicura che sapranno agire in modo trasparente ed etico? Insomma, per dirla con Platone, chi custodirà i custodi?  Nel sistema politico disegnato da Platone era certo che i depositari del potere avrebbero saputo gestirlo al meglio in virtù della loro natura aurea e di una formazione culturale che fin da piccoli li predisponeva a pensare al bene collettivo anziché al loro personale tornaconto. I custodi erano custodi di se stessi. Ma è chiaro che si tratta di un’utopia. Né un politico né il capo di un’azienda possono essere custodi di se stessi. E’ sempre necessario un controllo e una reciproca ed equa limitazione tra diversi poteri. Ma ora si sta affermando uno squilibrio pericoloso tra chi di potere ne ha già tanto (il datore di lavoro) e chi ne viene progressivamente e indebitamente spogliato (il lavoratore). Senza alcuna mediazione, con garanzie fittizie e spiegazioni demagogiche.


 

venerdì 23 marzo 2012

L'INQUIETANTE NORMALITA' DEL PREGIUDIZIO

Si parla spesso di "pregiudizi" per descrivere un'infinità di situazioni sociali. Ma sappiamo realmente cosa siano i "pregiudizi", quale ne sia la fonte, se ne siamo noi stessi vittime?
Utilizziamo spesso il termine “pregiudizio” in un’accezione negativa per descrivere un atteggiamento di uno o più individui potenzialmente nefasto per la convivenza sociale. In realtà, il significato della parola è assai più ampio. Non direi neutrale, perché ha implicazioni soggettive molto forti e una spiccata radicalità sia in un senso che nell’altro. Il pregiudizio è essenzialmente un atteggiamento, che può essere di favore o sfavore nei confronti dell’altro gruppo, anche se comunemente lo intendiamo come una posizione negativa verso gli altri, fonte di discriminazione e di razzismo. Si tratta di una conoscenza intergruppo, come lo sono gli stereotipi e la distanza sociale, ossia tipologie di conoscenze largamente condivise che hanno per oggetto interi gruppi e maturano nel corso dell’interazione sociale.
Nella seconda metà del Novecento gli studi di psicologia hanno dimostrato come questo genere di conoscenze, sebbene soggette a forti distorsioni cognitive, non siano del tutto destituite di fondamento. L’opera di G.W. Allport La natura del pregiudizio ha portato a una riabilitazione delle conoscenze intergruppo in quanto ha mostrato come le distorsioni presenti nei nostri ragionamenti rispondano a meccanismi cognitivi normali, che tutti possiedono e mettono in atto, e come la maggior parte degli stereotipi contenga un “nocciolo di verità” sul quale ovviamente si costruiscono convinzioni errate. L’idea che nessuno sia immune dal pregiudizio e che i processi mentali siano naturalmente soggetti a errore è un’acquisizione recente nella storia della scienza. Essa si è imposta in psicologia sociale solo quando, con l’affermarsi della psicologia cognitiva, ha cominciato a scricchiolare il modello perfetto dell’individuo razionale, immune da errori e capace di operazioni mentali precise.

In passato, specie nel dopoguerra, si riteneva che stereotipi e pregiudizi fossero il risultato di qualcosa di patologico, un pensiero malato e distorto.  Un classico nella storia della sociologia è la serie di studi condotti dagli esponenti della Scuola di Francoforte (Adorno,  Horkheimer e colleghi) sui pregiudizi e l’antisemitismo, tra i quali spicca per fama quello su “ La personalità autoritaria”. Si tratta di una ricerca pubblicata nel 1950 da cui emerge come i pregiudizi siano conoscenze patologiche prodotte da un’educazione sbagliata. Adorno si avvale del contributo della psicoanalisi freudiana per capirne a fondo i meccanismi. Riesce così a svelare come il bambino interiorizzi gradualmente e in modo inconscio l’autorità della società tramite l’interiorizzazione dell’autorità paterna. La conclusione è che gli individui antidemocratici possiedono un tipo particolare di personalità e provengono, nella maggior parte dei casi, da famiglie in cui i rapporti tra genitori e figli risultano caratterizzati da elementi di dominio, sottomissione e frustrazione. All’origine della personalità autoritaria vi sarebbe, dunque, un’educazione repressiva per cui il bambino cresce serbando una forte ostilità nei confronti dei genitori autoritari ma, non potendo ribellarsi, impara a identificarsi con l’autorità paterna e convoglia tutta la sua energia aggressiva sui deboli. La ricerca mostra anche una stretta connessione tra personalità e struttura sociale, l’influenza del modello culturale globale a sfondo fascista sulla formazione individuale. L’individuo pieno di pregiudizi, sottolinea Adorno, “è da considerare in larga parte il risultato della nostra civiltà. La sproporzione crescente tra i vari “agenti” psicologici interni alla personalità globalmente intesa viene senz’altro rinforzata da tendenze della nostra cultura quali la divisione del lavoro, la crescente importanza di monopoli e istituzioni e l’idea dominante di mercato, di successo e di competizione”.
Dieci anni più tardi, nel 1960, è Milton Rokeach a dedicare i suoi studi ai pregiudizi. Egli ne attribuisce la causa a un’ampia gamma di fattori (tra cui disturbi mentali cognitivi, chiusura mentale). Nel libro “The open and closed mind” distingue gli individui con una mente aperta da quelli in cui predomina una chiusura mentale. Questi ultimi  si costruirebbero giudizi distorti sulla realtà sociale e svilupperebbero atteggiamenti intransigenti e intolleranti verso chi possiede opinioni diverse.
Altre ricerche hanno individuato una possibile causa sociale dei pregiudizi, sottolineando come il disagio socio-economico, l’aggressività, i conflitti interclasse, la crisi dei valori possano concorrere alla diffusione di intolleranza e sospetto. L’economista e politico svedese Gunnar Myrdal, nella sua opera del 1944 sul razzismo negli Stati Uniti, intitolata “An American dilemma. The Negro Problem and Modern Democracy”, ha mostrato come, a suo avviso, l’ignoranza giochi un ruolo di primissimo piano nella formazione di pensieri distorti: “Tutte le forme di conoscenza e di ignoranza tendono sempre all’opportunismo o divengono tanto più opportuniste quanto meno sono soggette al controllo e alla verifica di una valida ricerca imperniata su fatti empirici”.

Il fattore sociale è importante per capire il fenomeno del pregiudizio, ma da solo non basta. Così come la spiegazione psicoanalitica, che non convince del tutto e palesa difetti di parzialità e di metodologia.
Gli studi finora esaminati sono, sotto certi aspetti, ancora attuali e di grande interesse ma hanno mostrato con gli anni delle debolezze strutturali soprattutto per quanto riguarda la loro ipotesi di partenza: la convinzione che i pregiudizi interessino solo personalità viziate e celino un pensiero patologico e malato. Nell’immediato dopoguerra una tale analisi non poteva che apparire rassicurante perché istillava negli animi la convinzione che il diffondersi delle ideologie nazifasciste e dei regimi totalitari fosse solo una parentesi, tragica e buia, nella storia dell’uomo, l’esito perverso e per certi versi casuale di una combinazione di fattori che univano la componente patologica a uno scenario sociale fertile ad accoglierla e a farla germogliare. E invece gli studi più recenti, soprattutto di psicologia cognitiva, hanno dimostrato che i pregiudizi non sono appannaggio esclusivo di menti malate ma sono ampiamente diffusi anche tra individui perfettamente sani e istruiti. Insomma, nessuno è immune totalmente dal pregiudizio. Basti pensare a quante volte dipingiamo le altre culture con colori che non useremmo mai per la nostra. La mia ovviamente è una metafora, che vuol mettere in evidenza la tendenza presente nella mente umana a descrivere gli altri in modo “distorto”. E’ assai inquietante il recente studio di E. Aronson che ha parlato dei “pregiudizi delle menti aperte”, assai pericolosi perché molto sottili e capaci di celarsi dietro pensieri apparentemente neutrali. Questo è il cosiddetto “razzismo simbolico”, il più pericoloso e difficile da estirpare, nonché oggi il più diffuso, perché assume una forma diplomatica e sofisticata, si nasconde dietro frasi innocue, all’apparenza addirittura sagge, in cui però si evidenzia e si comunica l’inferiorità dell’Altro. Come quando, ad esempio, si afferma di tollerare l’omosessualità ma al contempo si sostiene che non è etico estendere eguali diritti a tutte le coppie; oppure quando si respinge lo stereotipo dell’africano come primitivo e intellettualmente inferiore ma si evidenzia l’incompatibilità della sua cultura con la nostra. La quotidianità è piena di pregiudizi abilmente occultati dietro discorsi all’apparenza neutrali e obiettivi, perle di saggezza, dispensate da tutti noi che ci crediamo portatori di una verità indiscutibile e universale.



mercoledì 21 marzo 2012

L'INCUBO DEL DISUMANO

Un serial killer mosso da furia razzista e antisemita ha ucciso quattro persone, tra cui tre bambini, nella scuola ebraica  “Lycée Ozar Hatorah” di Tolosa, in Francia. Probabilmente è lo stesso animale che  la scorsa settimana ha sparato a tre militari di origine maghrebina. Ancora non è chiaro se le azioni siano frutto di un’organizzazione criminale neonazista oppure dell’iniziativa folle di un singolo la cui mente è completamente annebbiata dall’odio razziale. Si tratta comunque di un assassino estremamente organizzato e addestrato e, quindi, assai pericoloso, che potrebbe colpire ancora. Anzi, gli esperti prevedono un’altra strage proprio per venerdì.

L’Unione Europea, come molti quotidiani nazionali hanno messo in evidenza, ha sempre cercarto di minimizzare un fenomeno che paurosamente si sta diffondendo nei nostri Stati: l’esaltazione dell’ideologia nazista e della sua forte carica razzista e antisemita. Questo è dimostrato non solo da tutta una serie di eventi delittuosi a sfondo razziale che si sono succeduti negli ultimi anni nel nostro continente ma anche da atteggiamenti chiaramente xenofobi che affiorano dalle pagine dei social network, dalle scuole e da molti altri “luoghi”  reali o virtuali della nostra società. Un fenomeno agghiacciante che merita considerazione, perché è bene ricordare che proprio sottovalutando segnali e comportamenti giudicati non rilevanti prese forma e si concretizzò l’incubo nazista.

lunedì 19 marzo 2012

BARATTO, ORO, DENARO, BANCA – COME E’ CAMBIATA L’ECONOMIA E LA VITA DELL’UOMO

Oggi vi racconterò la storia di un mito, che per qualcuno ha addirittura del divino e che ha assunto un’importanza così forte nelle nostre vite, tanto da configurare nell’immaginario collettivo il mondo come una grande banca. Già proprio così, una gigantesca banca. E’ esattamente così che oggi appare il nostro pianeta. Le banche sono tutto, hanno in mano i nostri destini, la nostra esistenza, la stessa felicità. E mi ritorna in mente una favola, purtroppo non a lieto fine, che iniziava proprio così…

C’era una volta un paese in cui tutti si conoscevano e sopravvivevano coltivando la terra e scambiandosi i frutti. C’era chi lavorava i campi, chi allevava il bestiame e chi artigianalmente produceva utensili. Con il passare del tempo, il modificarsi delle stagioni umane, il sopraggiungere della modernità, quel microcosmo in cui regnava armonia e sicurezza si è completamente trasformato. Certo con la nuova era sono migliorate non poco le condizioni di vita, i trasporti si sono velocizzati, i raccolti sono stati sottratti ai capricci della natura. Ne è risultata una maggiore prosperità. Ma un nuovo protagonista è entrato nelle vite dei popoli, il denaro.
Certo, forme di scambio ci sono sempre state in ogni comunità umana, ma lo scambio di oggetti non è sempre stato mediato dal denaro. Il denaro è diventato il protagonista delle nostra vite attraverso un lungo processo esaminato in modo esemplare dal sociologo tedesco Georg Simmel in una delle sue maggiori opere Filosofia del denaro del 1900. Egli descrive il fenomeno nella sua evoluzione storica: dallo scambio in natura si è passati allo scambio attraverso l’oro (una sostanza che possiede un valore indipendente dalla sua forma), infine al denaro come puro “simbolo rappresentativo” del valore (la carta moneta, gli assegni). L’oro, infatti, ha un valore intrinseco, indipendente dall’aspetto formale, non è un simbolo ma ha valore di per sé. Il denaro, invece, in quanto pezzo di carta, moneta o assegno, è puramente simbolo. Questo processo evolutivo, che ha visto il passaggio dallo scambio in natura all’economia monetaria, è strettamente connesso all’evoluzione delle facoltà intellettuali umane. Scrive Simmel: “La crescita delle facoltà intellettuali e lo sviluppo delle capacità di astrazione caratterizzano l’epoca in cui il denaro diventa sempre più simbolo e sempre più indifferente al proprio valore intrinseco”. L’affermazione del denaro come simbolo è avvenuta parallelamente allo sviluppo nell’uomo di una maggiore capacità di astrazione intellettuale. L’economia monetaria è, inoltre, strettamente connessa al processo di industrializzazione e urbanizzazione. Nella grande metropoli, infatti, non è possibile lo scambio diretto di beni, ogni scambio è mediato dal denaro. L’economia monetaria si radica solo in quelle società dove ogni oggetto, ogni attività o prestazione possano essere tradotte in un astratto valore di scambio e dove sia possibile effettuare un confronto. Nel nostro sistema, ad esempio, il servizio prestato da un medico, la lezione di un insegnante, un litro di latte sono entità confrontabili perché tutte possiedono un valore di scambio e possono essere quantificate in termini monetari. Il denaro è l'espressione dell’intellettualismo razionale metropolitano ed è qualcosa di assolutamente impersonale.

La mediazione del denaro rende inoltre possibile, almeno in teoria, il raggiungimento di fini illimitati. Ciò ha determinato profonde implicazioni sociologiche che Simmel esprime nei termini di cinismo e atteggiamento blasé. Chi è il cinico? Il cinico è colui che prova un’intima soddisfazione quando riesce a dimostrare che ciò che si ritiene comunemente dotato di alto valore spirituale è in realtà riconducibile ai valori più bassi (istinti animali, interessi economici). E ovviamente il fatto che nella nostra era ogni valore sia ridotto a puro valore di scambio favorisce questo atteggiamento. Invece, chi è il blasé? Il blasé è colui che, a differenza del cinico, non avverte differenze tra i valori: “Il blasévede tutte le cose in una tonalità per così dire opaca e grigia e le sente indegne di suscitare una reazione…gli stimoli troppo forti privano i nervi di ogni capacità di reazione”. La possibilità di ottenere tutto ciò che si desidera senza sforzo finisce per rendere qualsiasi fine privo di senso. Simmel parla di “ottundimento delle capacità di discriminazione” come dell’essenza dell’atteggiamento blasé. Nella metropoli moderna siamo sollecitati da un’infinità di stimoli e la quantità finisce per abbassare la qualità, per cui non avvertiamo più la differenza tra essi e li percepiamo identici. E’ un inarrestabile processo di disindividuazione, che comporta il prevalere nell’individuo dell’aspetto oggettivo sul soggettivo, del profitto e dell’esteriorità sui valori più intimi e personali. Ciò si riflette nella sfera della cultura e dei rapporti umani: “Il rapporto del singolo con gli altri uomini ripete soltanto il rapporto dell’uomo con le cose mediato dal denaro”. L’uomo tende a scomparire del tutto, insomma.
L’esempio definito del carattere meccanico dell’economia moderna è il distributore automatico; in esso la mediazione umana viene esclusa completamente anche dalla vendita al dettaglio, che da sempre era fondata sul rapporto interpersonale; l’equivalente del denaro viene meccanicamente trasformato in merce”. Una metafora inquietante. Tutto è misurabile e calcolabile, come in una formula matematica. La cultura della razionalità permea ogni aspetto della nostra vita e ci troviamo, come in una gabbia, impossibilitati a sottrarci al meccanismo. Oggi questa gabbia è la banca, che incarna l’economia monetaria dell’epoca contemporanea. Tuttavia, resiste qualcosa in noi che non può essere automatizzato perché fa parte della natura umana. E ritroviamo questo aspetto quando ci fermiamo e per un attimo usciamo fuori dal turbine della quotidianità. Questo aspetto è la metafora del cuore.

sabato 17 marzo 2012

L'INVINCIBILE PERPLESSITA' DELLA NOSTRA EPOCA

Sappiamo pensare in modo oggettivo e incondizionato oppure il nostro pensiero è un prodotto sociale? Come operiamo mentalmente quando ci formiamo idee sul mondo circostante? Risentiamo del contesto oppure siamo obiettivi? I nostri processi mentali sono soggetti a distorsioni? Uno dei settori più fecondi della psicologia sociale è lo studio della conoscenza della realtà sociale che include tre filoni di ricerca: la social cognition, le rappresentazioni sociali, le attribuzioni. La social cogniton è l’attività mentale con cui elaboriamo i dati dell’esperienza formandoci la nostra visione della realtà sociale. Essa è però soggetta  a biases (distorsioni), dovuti alla struttura complessa dei processi cognitivi umani e alle influenze sociali. La causa di biases più rilevante è l’euristica cognitiva, una scorciatoia che utilizziamo al fine di rendere più semplice la risoluzione dei problemi. Gli input che dobbiamo elaborare sono molteplici e siamo costretti a prendere posizione in tempi rapidi, ci affidiamo così  a tali espedienti per trarre conclusioni senza effettuare analisi approfondite.  Tra le euristiche più utilizzate: l’euristica della disponibilità, per cui non si prendono in esame tutti i dati ma solo quelli disponibili, più facilmente accessibili (ad esempio, si ritiene che l’aereo sia più pericoloso della macchina, perché le stragi aeree hanno una maggiore risonanza mediatica e restano più facilmente impresse), l’euristica della disponibilità, per cui non consideriamo la realtà così com’è ma utilizziamo lo schema mentale che ci siamo formati (ad esempio, conta molto più il prototipo del professore o del medico che abbiamo in mente piuttosto che i dati effettivi su come di fatto sono professori e medici), l’euristica dell’ancoraggio o della perpetuazione, per cui una volta che ci siamo fatti un’idea o un’opinione su un fatto tendiamo a conservarla, anche a dispetto delle nuove informazioni.
Per comprendere la realtà non ci affidiamo solo all’esperienza ma ci serviamo anche delle rappresentazioni sociali, che sono versioni di senso comune maturate in ambiti specifici, sono concezioni a metà strada tra le posizioni individuali (opinioni, atteggiamenti) e le concezioni specialistiche elaborate in ambito scientifico, religioso, ideologico.
Le attribuzioni, invece, sono i ragionamenti con cui ci spieghiamo i fatti che accadono, ascrivendo a dei bersagli diversi attributi. Fritz Heider, uno dei principali studiosi di psicologia sociale del dopoguerra, ha distinto tra attribuzioni causali interne (riferite al soggetto agente, alle sue capacità, impegno) e attribuzioni esterne (riferite all’ambiente, alle circostanze, alla sorte). L’errore chiave, tipico di noi occidentali è di dare più importanza agli errori individuali che a quelli ambientali. Quando dobbiamo spiegare le nostre azioni preferiamo le attribuzioni esterne, per le azioni altrui quelle interne (effetto sé-altro). Per cui se non riusciamo in qualcosa tendiamo a ricercare la causa in fattori esterni (la sfortuna, le circostanze), se sono gli altri a fallire cerchiamo motivazioni personali (scarso impegno).

E’ dunque compito arduo pensare in modo oggettivo. Al di là dei fattori cognitivi, sociali e psichici dobbiamo tener presente che noi siamo esseri costitutivamente storici, prodotti di un’epoca e di una realtà sociale specifica. Il pensiero degli uomini è sempre in rapporto con la loro esistenza, con la specifica posizione sociale occupata, con l’atmosfera culturale in cui si è immersi. Mi viene in mente, a questo proposito, Karl Mannheim, fondatore della sociologia della conoscenza e autore della celebre Ideologia  e utopia  dove riflette sul condizionamento sociale  e storico del pensiero. La sua teoria sottolinea che a diversi gruppi sociali corrisponde un diverso modo di interpretare la realtà in virtù della propria cultura  e dei propri interessi. Così l’analisi di un determinato problema sarà sempre relativa a specifici interessi di parte. Solo gli intellettuali in quanto dotati di una maggiore istruzione possiedono più imparzialità e sono in grado di elaborare una "sintesi dinamica" tra le varie posizioni e fondare una politica scientifica. Tuttavia, neanche questi ultimi sono del tutto avulsi dal contesto sociale e possono risentire dell’insicurezza cadendo nello stato definito “invincibile perplessità”. Un concetto, a mio avviso, quantomai attuale e sintomatico della nostra stessa epoca. Alberto Izzo, nel testo su L’anomia ha ben spiegato questa condizione: “…come il contadino che finchè rimane in campagna non ha dubbi circa l’assolutezza dei modi di vita rurali, ma, entrando a contatto con una realtà urbana, non è più sicuro del vecchio stile di vita, né del nuovo e si trova spaesato, senza punti di riferimento certi, così capita all’intellettuale che conosce una pluralità di posizioni teoriche differenti e non sa scegliere. Questa è stata definita “anomia epistemologia, nel senso che il disorientamento riguarda gli stessi fondamenti della conoscenza in quanto non riportabili a un unico principio certo, ma condizionati da una pluralità di posizioni sociali tra loro in contrasto”. L’intellettuale, l’uomo di cultura, sente maggiormente l’insicurezza, il disorientamento, se volete il male sociale, perché più consapevole, in virtù delle sue conoscenze, della realtà circostante. Ma la condizione anomica, di spaesamento, tipica della nostra era, riguarda tutti, indistintamente. L’assenza di valori assoluti che possano fungere da guida per la nostra condotta e da punto di riferimento per la nostra vita ci getta in uno stato di confusione e di incertezza.

venerdì 16 marzo 2012

I MEDIA E LA FALSA COSCIENZA

Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, …, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe  e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti…Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di veder costruito un muricciolo…Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno…Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza… che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e a levare lo sguardo alla luce… Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio?”. È questo l’estratto della narrazione del mito della caverna, uno dei più noti racconti platonici, con cui si apre il VII libro della Repubblica. Platone è stato uno dei primi ad affrontare il problema della conoscenza, ossia il processo attraverso cui definiamo e comprendiamo le cose che esistono al di fuori della nostra soggettività e questo mito ne rappresenta la più suggestiva allegoria. La conoscenza umana, secondo il filosofo ateniese, si sviluppa  sulla base di idee universali, entità immutabili e perfette, di cui gli oggetti del mondo non sono altro che copie, o imitazioni imperfette. Le idee sono le essenze archetipe delle cose, condizione della loro stessa pensabilità ed esistenza. E finché non saremo in grado di scorgerle, rimarremo incatenati, proprio come gli schiavi della caverna, alla nostra ignoranza e all’oscurità. Soltanto sciogliendo questi “lacci” potremo attingere la vera realtà e contemplare la luce del sole.

La conoscenza del mondo, dice Platone, è affetta dalle nostre percezioni sensoriali, fallaci e ingannevoli, ma anche da convenzioni e significati condivisi relativi al mondo esterno. Gli scienziati sociali hanno parlato, a tale proposito, di “costruzione sociale della realtà”. Questa teoria è stata sposata anche da molti studiosi delle comunicazioni di massa, secondo i quali i significati attribuiti alla realtà non sono altro che costruzioni sociali. Esattamente come i prigionieri nella caverna, le esperienze che noi facciamo riguardano, per la maggior parte, un mondo mediato, non la realtà vera e propria.

Una delle teorie di comunicazione più esemplificativa in tal senso è l’agenda setting.
Che cos’è un’agenda? È una lista di temi che consideriamo elencati in una gerarchia di importanza. L’ipotesi venne elaborata da Maxwell E. McCombs e Donald L. Shaw, alla fine degli anni Settanta, in una ricerca sull’informazione prodotta durante la campagna presidenziale americana del 1968 e sulla percezione dell’importanza dei vari temi da parte degli individui. Ne risultò una relazione molto forte tra l’attenzione data dai media ai temi della campagna elettorale e il livello di importanza  attribuito dagli elettori a quei temi; si riscontrò, inoltre, che gli elettori prestavano attenzione a tutte le notizie politiche a prescindere che esse provenissero o meno dal candidato preferito. Si scoprì, in sostanza, che i media riescono a far corrispondere i propri messaggi con gli interessi del pubblico.
Ciò non vuol dire che gli organi di comunicazione siano capaci di convincere gli individui ad adottare un particolare punto di vista, ma fanno in modo che essi considerino alcuni temi più importanti di altri. In pratica non ci viene detto cosa pensare in merito a un argomento, ma ci viene detto a cosa pensare. Ecco come l’agenda dei media diventa l’agenda del pubblico. Il pubblico è portato a ritenere che ciò di cui parlano i giornali, le tv, i media in generale, siano i temi più importanti e li inseriscono nella loro agenda personale. Già Cohen nel 1963 aveva detto: “ … la stampa può, nella maggior parte dei casi, non essere capace di suggerire alle persone cosa pensare, ma essa ha un potere sorprendente nel suggerire ai propri lettori intorno a cosa pensare”.  Infatti : “L’ipotesi dell’agenda setting non sostiene che i media cercano di persuadere […] i media descrivendo e precisando la realtà esterna presentano al pubblico una lista di ciò intorno a cui avere un’opinione e discutere. L’assunto fondamentale dell’agenda setting è che la comprensione che la gente ha di gran parte della realtà sociale è mutuata dai media.”(Shaw1979).


Quella dell’agenda setting è una solida tradizione di ricerca ed è quantomai attuale. Pensiamo, ad esempio, ai conflitti internazionali. Cosa ci viene in mente? Beh, immediatamente l’Afghanistan, l’Iraq, forse la Libia. Perché non l’Africa? Dove sanguinose guerriglie quotidiane sconvolgono innumerevoli regioni. Perché si parlava tanto delle atrocità commesse da Saddam Hussein ma non si menziona la dittatura monocratica della Corea del Nord? Pensiamo poi ai nostri telegiornali imbottiti di cronaca nera e rosa, tant’è che finiamo per pensare che il problema del giorno sia scoprire davvero se zio Michele ha ucciso la povera nipotina e come andrà a finire questa o quella love story, piuttosto che ciò che non viene detto. Crediamo di conoscere, di sapere tutto, di avere il controllo della realtà. Invece, non sappiamo proprio niente. Siamo come gli schiavi di Platone, prigionieri di un mondo fittizio.
Gli individui costruiscono la propria agenda in conseguenza di ciò che è presente nell’agenda dei media. Questo significa che noi non sappiamo se ciò che quotidianamente i media ci offrono nel loro bouquet sia realmente la notizia o l’argomento più importante. Ciò di cui i media non parlano finisce semplicemente per non esistere e qui si cela il potere degli organi di comunicazione e di coloro che ne hanno accesso, un potere che in modo invisibile e apparentemente innocuo indirizza le nostre coscienze e il nostro orientamento collettivo.

giovedì 15 marzo 2012

IL MERCATO DEL LAVORO RISPECCHIA L'ETHOS DI UN POPOLO

Voltaire diceva "il lavoro allontana tre grandi mali la noia, il vizio e il bisogno". John Lennon ha detto “lavoro è vita, lo sai, e senza quello esiste solo paura e insicurezza". E poi ancora la nostra Costituzione che così recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Ne potremmo elencare un’infinità tra aforismi e citazioni e non sarebbe comunque necessario, perché tutti conosciamo l’importanza del lavoro per l’essere umano, non solo per la sopravvivenza ma anche per la funzione di utilità sociale che esso riveste. Il lavoro nobilita l’uomo, si dice. Non è mera retorica, è una verità indiscutibile e sovratemporale. Infatti, a intuire il significato del lavoro per l’identità della nostra specie fu già nel V secolo a.C. Anassagora di Clazomene, il quale vide nelle “mani” lo strumento capace di distinguere l’uomo dall’animale e nel lavoro, in generale, il mezzo capace di aguzzare le nostre abilità  mentali, che altrimenti si arresterebbero ai livelli più bassi. Hegel nella  Fenomenologia dello Spirito ha espresso, in modo geniale, nella figura del servo-signore l’importanza del lavoro per la coscienza umana: “Il lavoro è un appetito tenuto a freno, è un dileguare trattenuto: ovvero il lavoro forma… così, quindi, la coscienza che lavora giunge all’intuizione dell’essere indipendente come di se stesso”. E connessa all’importanza del lavoro e della dignità umana c’è poi la teoria degli alimenti di Feuerbach, di profonda rilevanza etica e politica: “I cibi si trasformano in sangue, il sangue in cuore e cervello; in materia di pensieri e sentimenti. L’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento. Se volete far migliore il popolo…dategli un’alimentazione migliore. L’uomo è ciò che mangia”. E infine Marx che  ha posto il lavoro alla base della storia, come creatore di civiltà e cultura, strumento di distinzione dell’uomo dalle altre specie.

Non si vuole cadere nel retorico citando questo o quell’autore, ma le riflessioni stimolano altre riflessioni, aiutano a pensare, a renderci conto della situazione reale.
E’ un po’ che circola sul web la divertente e, al contempo, amara battuta “L’Italia non è una Repubblica fondata sul lavoro ma sulla ricerca del lavoro”. Forse davvero si dovrebbe cambiare il testo costituzionale, perché un Paese che non è più in grado di  tener fede al suo stesso principio, a ciò che costituisce il suo valore fondante, è un Paese bugiardo, che inganna i suoi figli, che va contro la sua stessa ragion d’essere. Un Paese dove il livello di disoccupazione è così alto è un Paese fermo, morto, è uno zombie che cammina e che aspetta soltanto che ne venga decretata la morte effettiva. Perché distrugge la stessa essenza sociale dei suoi figli.
                                                                                                                        
Mi viene in mente un saggio del sociologo Goran Therborn, professore all’università di Cambridge, intitolato “Perché alcune persone sono più disoccupate di altre?”. L'autore mette a confronto diversi modelli mondiali di disoccupazione selettiva e a proposito del caso italiano parla di disoccupazione "escludente e a carattere punitivo". “Escludente” perché colpisce soprattutto giovani e donne, “punitivo” per la quasi totale assenza di sussidi di disoccupazione. A questa analisi condotta nel 1986 vanno ovviamente aggiunti altri elementi che nella loro globalità e complessità contribuiscono a spiegare la nostra situazione. La miopia dimostrata dai vari governi, che nei decenni si sono succeduti, fino all’ultimo governo tecnico, è imbarazzante e si spiega solo considerando una strenua difesa di interessi e privilegi.

Proprio ieri c’è stato l’atteso vertice tra i segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e Ugl e il Ministro del Lavoro Elsa Fornero. Questo in pillole ciò che è trapelato: sull'articolo18 si sta valutando la possibile applicazione del modello tedesco (il diritto al reintegro al posto di lavoro, previsto dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, dovrebbe restare solo nel caso dei licenziamenti discriminatori, mentre dovrebbe essere garantita la possibilità di licenziamento per motivi economici a livello individuale e per motivi disciplinari. In tal caso spetterebbe al giudice, così come avviene in Germania, di stabilire l'indennità risarcitoria immediata con una procedura accelerata rispetto a quella attuale in Italia e graduata in base all'anzianità di servizio del lavoratore); il contratto d'apprendistato sarà fondamentale per i giovani per entrare nel mondo del lavoro; il numero di contratti verrà probabilmente ridotto dai 46 esistenti oggi a otto; il contratto a tempo determinato costerà di più al fine di scoraggiare la precarietà; il governo è disposto a stanziare 3,8 miliardi di euro all’anno per gli ammortizzatori sociali; se si perde il posto c’è l’ASPI, assicurazione sociale per l’impiego, di cui potranno usufruire anche gli apprendisti.

Al momento restano fuori, però, dal nuovo schema di ammortizzatori sociali i cosiddetti co.co.pro e i co.co.co, lavoratori che svolgono teoricamente collaborazione esterna ma che in pratica sono dipendenti. Da sempre invisibili. Si è parlato tanto in questi giorni di disoccupazione giovanile (prendendo in considerazione la fascia di età tra i 18 e i 24 anni, talora dai 24 ai 29 anni), sicuramente un problema grande per la società, ma ancora più allarmante è che vi siano giovani-meno giovani, gli over 30, con situazioni di disoccupazioni ancora più gravi, rese peggiori, data l’età, dall’impossibilità di provvedere alla propria famiglia. Si sta perdendo di vista (e qui mi pare il minimo parlare di miopia!) una larga fetta di società, pseudo-giovane, che ha difficoltà a mantenersi, che ha perso il proprio lavoro per i tagli disposti dal governo, o che magari il lavoro non è mai riuscito a trovarlo, non certo per suo demerito. Ecco anche costoro godono dello status di invisibilità agli occhi del governo, tutto proiettato alla discussione dei termini relativi alla flessibilità in uscita e ai contratti di formazione, ovviamente più convenienti.

Adesso si guarda al modello tedesco, come qualche anno fa progettando la flessibilità lavorativa si guardava agli Stati Uniti, dimenticando che noi non siamo la Germania né tanto meno siamo l’America. La nostra cultura è, aimè, profondamente diversa, e credo sia questo il principale problema italiano, un problema che affonda le sue radici ben più in là, in una gestione del lavoro e delle risorse umane  malata e viziata che non ha saputo guardare al merito individuale e alle capacità. Valgano un paio di esempi su tutti, come due gocce in un oceano sterminato. La recente inchiesta del Corriere della Sera che ha fatto luce su come tutta la famiglia del Magnifico Rettore dell'Università di Roma La Sapienza, Luigi Frati, sia stata presumibilmente "sistemata" con incarichi di prestigio nell’ateneo capitolino ha certamente suscitato scandalo e indignazione. E’ stata aperta un’indagine, ma, come è facilmente prevedibile, nessuno toglierà il posto di lavoro a questi privilegiati. Oppure mi viene in mente il servizio della trasmissione Le Iene sui dipendenti comunali di Roma che timbravano per i loro colleghi assenti o che sostavano ore e ore al bar o al mercato a fare la spesa, e come tutti sanno non sono gli unici. Anche per costoro ci sarà sicuramente un richiamo, ma non perderanno il posto di lavoro. E mi chiedo, perché in altri Paesi certa gente verrebbe licenziata seduta stante e in Italia no? Perché invece di pensare alla flessibilità in entrata e in uscita, agli ammortizzatori, non si semplifica il licenziamento per giusta causa? Se non consideriamo “giuste cause” episodi come questi, mi chiedo che concetto di giustizia abbiamo in questo Paese. Ma sono solo parole. Il fatto è che molti fannulloni continuano a scaldare le sedie dei loro uffici (nella migliore delle ipotesi) e chi merita (giovani e pseudo-giovani) si trova a casa a fare la fame. Eppure, sarebbe così semplice, licenziamento immediato per i furbi e assunzione di giovani e meno giovani meritevoli. Ovvio, ciò non risolverebbe l’intero problema disoccupazione ma premierebbe chi merita e darebbe un forte segnale di cambiamento, soprattutto nella mentalità e nella cultura. Ho riportato questi due fatti perché vicende esemplari di come funziona il nostro sistema. Un sistema malato, le cui cause, a mio avviso, sono difficilmente estirpabili, perché un’azione efficace richiederebbe un mutamento radicale di cultura. Ed è compito assai arduo, se non impossibile, cambiare l’ethos di un popolo.