Devo all'affascinante teoria pitagorica l'ispirazione del titolo di questo blog. Secondo il filosofo di Samo, il movimento dei corpi celesti è regolato da leggi geometriche, risultando perciò armonico e perfetto. Muovendosi, gli astri emettono una musica sublime e celestiale, definita "armonia delle sfere", che l'orecchio umano non può percepire a causa dell'assuefazione, un fenomeno psicologico che rende inavvertito alla coscienza un suono continuo. Il richiamo alla sapienza antica vuole essere il punto di partenza di un diario online che propone una riflessione, e se vorrete un dibattito costruttivo, su eventi significativi per il percorso storico e umano. La mia ambizione è mettere a disposizione uno spazio dove ogni fatto che ci riguardi possa essere analizzato sotto la lente delle scienze dell'uomo.
Ritorna nella nostra epoca l’incanto della teoria platonica. In tutta la sua forza, in tutta la sua suggestione. Un fascino senza tempo, perché il frutto del genio umano non sa mai di antico, esso è sempre attuale, come una bella favola che si perpetua di generazione in generazione.
Il mondo delle idee, questo “luogo al di là del cielo” dove risiederebbero gli esemplari perfetti ed eterni delle cose, la sede della sostanza e dell’essere, si riaffaccia nella teoria di Karl Popper, nell’ultima fase del suo pensiero. Popper muore a Londra nel 1994, siamo, dunque, alle soglie del nuovo millennio, e l’ultimo sviluppo del suo sistema è un esito realistico e oggettivistico coronato dalla suggestiva teoria dei tre mondi.
Il filosofo parla dell’esistenza di tre “dimensioni”:
il Mondo 1 è il mondo delle entità fisiche;
il Mondo 2 è il mondo delle nostre esperienze soggettive, ossia dei nostri pensieri, delle nostre speranze e paure;
il Mondo 3 è fatto dei prodotti dei nostri pensieri, speranze e paure, cioè è fatto dei prodotti del Mondo 2 (che è il mondo dell’animo umano e della mente).
Il terzo mondo è “del tutto indipendente sia dall’uomo sia dal tempo”. Di qui l’affinità con il mondo delle idee platonico. C’è, però, una fondamentale differenza che rende originale la concezione di Popper ed è il carattere essenzialmente storico e umano del Mondo 3. Il Mondo tre è il mondo dei pensieri e delle opere create dall’uomo. “Il Mondo 3 ha una storia. E’ la storia delle nostre idee: non solo una storia della nostra scoperta, ma anche una storia di come le abbiamo create, e come esse abbiano reagito su di noi, e come noi abbiamo reagito a questi prodotti della nostra stessa opera. Questo modo di considerare il mondo 3 ci permette anche di inscriverlo nell’ambito di una storia evoluzionistica che riguarda l’uomo come animale”.
La mente dell’uomo oscilla perennemente tra il limite e l’illimitato, tra la consapevolezza della propria finitudine e le smanie di onnipotenza. Pur avvertendo, infatti, l’esistenza di confini invalicabili che mai potrà oltrepassare, essa è portata a spingere le ali della fantasia sempre più in alto o a interrogarsi su problemi che l’umana comprensione sembra non poter abbracciare. Sì, perché il nostro intelletto è irresistibilmente attratto dall’ignoto e abbandona spesso il mondo fenomenico e limitato per spaziare verso i confini dell’assoluto e dell’incondizionato, salvo poi rendersi conto dell’impossibilità di raggiungere spiegazioni soddisfacenti.
Suggestiva la metafora costruita da Kant nella Critica della ragion pura che assimila l’intelletto umano a una colomba che si libra in volo lamentandosi però degli impedimenti dell’aria e sogna di poter volare anche senza di essa, non rendendosi conto però che l’aria costituisce sì una resistenza al suo volo ma ne è anche la condizione essenziale. Senza di essa, infatti, cadrebbe a terra. Esattamente come l’uomo ripiomba violentemente nella dura realtà quando si avventura nei meandri insolubili delle questioni metafisiche su cui la scienza può avanzare solo deboli ipotesi.
Siamo davvero condannati a urtare contro un muro insormontabile, rappresentato da quelle che Karl Jaspers chiama “situazioni limite”, oppure esiste la possibilità concreta di attingere a una conoscenza assoluta?
C'è da dire che le capacità scientifiche appaiono sconfinate. La ricerca ha fornito risposte che fino a qualche tempo fa sembravano inimmaginabili. E il progresso, in ogni campo dello scibile, è sempre più dilagante e sorprendente. Tuttavia, ci sono degli interrogativi a cui l’uomo, sin dalla sua comparsa sulla Terra, ha cercato di dare risposta, senza mai approdare a una certezza assoluta. Dubbi ancestrali che tormentano il nostro essere. Dilemmi senza fine, ermetici e insolubili. Ritorna, così, la scissione apparentemente non ricomponibile tra il mondo fenomenico, che la scienza può analizzare, e l’extrafenomenico, inconoscibile e sfuggente. E, a questo proposito, assai affascinante è la metafora kantiana che assimila la scienza alla terraferma di un’isola e l’ambizione dello scienziato di spingersi oltre l’esperibile al desiderio del navigante di andare alla ricerca infinita di nuovi mondi: “questo territorio è un’isola che la natura ha racchiuso in confini immutabili. E’ il territorio della verità (nome seducente), circondata da un ampio e tempestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la parvenza (l’illusione metafisica), dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiacci creano ad ogni istante l’illusione di nuove terre e, generando sempre nuove ingannevoli speranze nel navigante che si aggira avido di nuove scoperte, lo sviano in avventurose imprese che non potrà né condurre a buon fine né abbandonare una volta per sempre”.
Da sempre la coesione viene percepita come un elemento positivo all’interno di un gruppo. Un gruppo coeso è straordinariamente produttivo e in grado di affrontare le difficoltà con maggiore possibilità di successo. I singoli membri si sentono molto sicuri, hanno una forte autostima e un maggiore equilibrio, perché sanno di poter contare gli uni sugli altri e di costituire un unico organismo vivente. Non tutti sanno, però, che un elevato livello di coesione potrebbe rivelarsi controproducente e avere effetti deleteri per la stessa vita del gruppo. Si potrebbe, ad esempio, registrare un calo vertiginoso del rendimento, conseguenza psicologica di quella condizione definita “beata improduttività”: un eccessivo benessere del gruppo porta a un calo nel raggiungimento degli obiettivi perché le persone “si cullano”, per così dire, nell’idea di lavorare insieme e traggono forza dal sostenersi a vicenda.
L’effetto più pericoloso della coesione è, però, la “mentalità di gruppo”, ossia un pensiero largamente condiviso e resistente alle critiche, che si autoconvalida facendo leva sul consenso interno. Un pensiero di questo tipo perde facilmente di vista l’obiettività e può dar luogo a scelte disastrose. La storia ci regala diversi esempi di decisioni importanti, prese in ambito politico e militare, clamorosamente infelici. E’ stato Irving Janis, alla fine degli anni Sessanta, a studiare questo “effetto perverso” della coesione esaminando una serie di decisioni rivelatesi fallimentari. Famoso il caso dell’invasione della Baia dei Porci nel 1961. L’allora Presidente degli Stati Uniti John Kennedy decise, consigliato dai suoi uomini, di far sbarcare 2 000 esuli cubani anticastristi a Cuba sotto l’appoggio americano. Una decisione che a chiunque dall’esterno parve assurda e sconsiderata. L’esito negativo era insomma facilmente prevedibile anche dai meno esperti. Gli invasori, infatti, vennero catturati e uccisi.
La scelta si rivelò disastrosa nonostante fosse stata presa da persone di estrema competenza e tutt’altro che incapaci. Perché ciò accadde? Perché persone di grande intelligenza e indubbia esperienza furono vittime di un abbaglio così clamoroso? Secondo lo studio di Janis, fatale, per Kennedy e i suoi consiglieri, fu il fatto di decidere collettivamente. In un gruppo caratterizzato da un’elevata coesione è difficile che possano sorgere discussioni proprio perché i membri tendono a vedere le cose allo stesso modo e hanno un’intesa perfetta. Non c’è dunque scambio di opinioni e manca la critica, che è il sale di ogni sano confronto. Proprio l’indebolimento del senso critico portò Kennedye i suoi uomini a perdere di vista l’obiettività e a credere eccessivamente nelle possibilità di successo di un’impresa ambiziosa.
L’ennesimo addio a un giovane protagonista dello sport italiano. Fa male dover salutare così un ragazzo. Improvvisamente e crudelmente. Senza un motivo. Senza risposte. Sì, perché la vita sembra non dover mai finire, soprattutto per uno sportivo, incarnazione ed emblema della forza fisica e della salute. Tanti i campioni che ci sono stati strappati via. E con loro se ne sono andate le imprese, che sarebbero potute essere e che non sono state, oppure i ricordi di un tempo, gesta memorabili e firme da eroe, che indelebili sopravvivono nel cuore di chi le ha vissute. Questa una citazione di Eschilo di Eleusi, poeta greco: “Tutto quanto il futuro io conosco perfettamente fin d'ora, né mi giungerà inatteso alcun dolore. Bisogna sopportare il meglio possibile la porzione di sorte che ci è assegnata, sapendo che invincibile è la forza della necessità”. Parole sagge, sapienza sconfinata. Ma è così difficile accettare la decisione del fato. Dura è accettare la sconfitta, quando a perdere è un ragazzo di neanche 26 anni. Il dramma di Piermario Morosini, giocatore del Livorno morto ieri pomeriggio all’ospedale di Pescara dopo il malore avvertito durante la gara della sua squadra con il club abruzzese, è solo l’ultimo di una lista di morti improvvise in campo: dal '69 a oggi, Taccola, Curi, Ceccotti, Calonaci, Greco. In campo internazionale, negli ultimi anni: Foè, Serginho, Puerta, O’Donnell, King, Jarque, Wleh, Idahor Opoku, Matsuda, Elejiko, Venkatesh. Questo per quanto riguarda il calcio. Ma non dimentichiamo la recente scomparsa di Bovolenta, il pallavolista stroncato da un malore durante una partita di B2 con la sua Volley Forlì.
Le cronache calcistiche, dal 1889 ad oggi, documentano ben 88 casi di ragazzi morti in campo o negli spogliatoi per arresti cardiaci. Scomparse in certi casi simili, in altre diverse, ma in ogni caso accomunate dal triste binomio calcio-morte. E non scordiamo gli sportivi deceduti a seguito di malattie: Fulvio Bernardini, morto nel 1984 per il morbo di Gehrig, e Andrea Fortunato, difensore della Juventus, ammalatosi di leucemia a soli 23 anni e morto il 25 aprile 1995 a causa di una polmonite quando la malattia stava quasi per essere sconfitta. A soli 42 anni, nel 2002, muore Gianluca Signorini, è ancora il morbo di Lou Gehrig a infierire nello sport. Questi i nomi più celebri ma la lista sarebbe ancora lunga. Pur non conoscendo le cause che hanno portato agli arresti cardiaci in campo e a contrarre la Sclerosi laterale amiotrofica (nella quale si è registrato un indice di correlazione piuttosto alto tra calciatori, ex-calciatori e malattia, forse per i ripetuti traumi alle gambe, i colpi di testa dati al pallone, i farmaci, ma in campo medico siamo ancora nel regno della pura ipotesi), suscita preoccupazione la frequenza di episodi così tragici. Qualcuno pensa al caso o a un’impietosa sentenza del fato. E forse è così. Ma come un tuono, pauroso e inaspettato, nel mezzo di un temporale, risuonano le parole che Zdenek Zeman pronunciò dell’ormai lontano 1998 scuotendo fortemente il mondo del calcio: “Il calcio deve uscire dalle farmacie e dagli uffici finanziari”. Non sappiamo ancora se l’alta incidenza di quella malattia e la recente frequenza di arresti cardiaci di giovani sportivi siano dovuti all’assunzione di farmaci. Non possiamo dirlo. Ma abbiamo il dovere di chiedercelo. Un interrogativo inquietante, che squarcia il silenzio angosciosamente calato su tutti gli stadi d’Italia ieri pomeriggio. Ancora una volta.
Democrito diceva che “tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità”. Baruch Spinoza, molti secoli più tardi, avrebbe scritto: “Il mondo è un effetto necessario della natura divina, e non è stato fatto per caso”. Necessità o caso. Destino o tragica fatalità. Provvidenza divina o natura matrigna. Questi gli antipodi che, dall'inizio della storia, hanno diviso la mente dell’uomo quando ha cercato di dare risposta a eventi inspiegabili. Già, perché la nostra mente rigetta l’idea che una sorte così avversa possa toccare casualmente qualsiasi vita. Respingiamo l’inspiegabile e l’ineluttabile. E ci rifugiamo nel pensiero del disegno divino o della natura che agisce necessariamente e finalisticamente. Respingiamo l’idea della casualità, quella perversa immagine della natura o di un’entità divina che “gioca a dadi” con le nostre vite. Tutto può essere, ogni spiegazione ha il suo fascino e porta con sé quella dose di speranza di cui l’umanità del nostro essere ha bisogno. Ma non sappiamo quale sia la risposta. Nessuno ha mai avuto e mai avrà la chiave per svelare il senso di simili non-sensi.
Secondo Telesio, è innegabile che nel mondo animale e vegetale esistano forme di spiritualità. Già Aristotele aveva attribuito alle piante un’anima vegetativa e agli animali un’anima sensitiva, e solo agli uomini l’intellettiva. Le tesi di Telesio è, però, peculiare perché basata su un sensismo radicale: tutta la conoscenza dell’uomo si riduce alla sensazione, infatti “il senso che sente, paragona e connette le cose simili, costituisce l’universale”. Una sensazione raffinata, quella dell'uomo, certo, ma nulla più che una sensazione. E dal momento che il pensiero si basa sulla sensibilità e dal momento che è inconfutabile la capacità percettiva degli animali, Telesio non può che concludere che anche gli animali pensano: “Si considerino le bestie…esse sono fornite soltanto del senso, eppure hanno conoscenze universali non meno che gli uomini. Non si può infatti dubitare che esse riconoscono l’uomo, il leone, l’animale, la pianta e le differenze tra l’una e l’altra cosa e sanno che il fuoco riscalda e che l’aria e l’acqua sono cedevoli…”.
La tesi della similarità tra uomo e animale è poi rafforzata, a metà dell'Ottocento, dall'evoluzionismo darwiniano: "Le facoltà mentali dell'uomo e degli animali inferiori non differiscono per tipo, bensì immensamente per grado". Non vi è una dimensione metafisica estranea al mondo animale e peculiare dell'uomo. Per Darwin, l'uomo è un semplice animale, in tutti i suoi aspetti, nel corpo come nello spirito.
Non c'è ragione, dunque, nè etica nè scientifica, di stabilire una presunta superiorità di diritti che consentirebbero alla sfera umana di prevaricare e violentare il mondo naturale e animale.
Dove abita l’anima umana? Dove si colloca precisamente? E’ qualcosa di così vago e sfuggente che sembra impossibile localizzarla. Essa sfugge, infatti, a qualsiasi processo di materializzazione.
Ormai c'è unanime accordo tra gli scienziati nel collocarla nell’organo cerebrale. Ma nell’antichità diverse affascinanti teorie si sono succedute. Suggestiva quella di Omero che poneva l’anima nel diaframma, perché “luogo del respiro”. Opposte prospettive si sono trascinate per secoli fino all’epoca moderna quando, con la nascita dell’anatomia e della fisiologia e con il pensiero di Cartesio, si è stabilita la preminenza del cervello nell’attività psichica.
Il pensiero greco e quello medievale oscillarono tra due opposte concezioni: cardiocentrismo ed encefaloncentrismo. Esponente illustre del primo fu Aristotele, autore della prima opera di natura psicologica nella storia della cultura occidentale: il De anima. Lo Stagirita riteneva che fosse il cuore il centro dell’attività psichica e che il cervello avesse solo il compito di “raffreddare” il corpo, riequilibrando così l’intero sistema organico. Nel cuore avrebbe luogo, così, l’associazione tra esperienze, immagini e memoria secondo i criteri della similarità, del contrasto e dell’associazione.
La prospettiva dell’encefalocentrismo fu sposata, invece, da Ippocrate, padre della medicina occidentale, che vede nel cervello la sede dell’attività razionale e dell’emozione: “Gli uomini devono sapere che il piacere, la letizia, il riso, gli scherzi e così pure il dolore, la pena, l’afflizione e il pianto da nessun’altra parte provengono se non dal cervello. Per opera sua noi soprattutto pensiamo e guardiamo e udiamo e riconosciamo ciò che è vergognoso e bello e brutto e buono e piacevole e spiacevole…E, sempre per opera sua, noi diventiamo folli e usciamo di senno ed abbiamo incubi e terrori e soffriamo di sogni e di smarrimenti ingiustificati…Per questo io credo che il cervello abbia un grandissimo potere sull’uomo. E gli occhi e le orecchie e le mani e i piedi si comportano secondo quello che il cervello capisce. E il cervello è per così dire il messaggero dell’intelligenza. Né il cuore né il diaframma hanno nulla a che vedere con la capacità di pensare ma la causa di tutti questi fenomeni è nel cervello…Per questi motivi penso che il cervello abbia la forza più grande nell’uomo”.
La Grecia deteneva il primato del Paese europeo con il più basso tasso di suicidi. Nella prima metà del 2011 ha invertito questo record, diventando il Paese con il tasso più elevato. In Italia abbiamo toccato quota sedici tra imprenditori e artigiani che negli ultimi due anni si sono tolti la vita per timore di non riuscire a far fronte a una situazione economica sempre più disperata. Ma sono molti di più, se consideriamo altre categorie. Il 3 aprile un’anziana di Gela si uccide lanciandosi dal terrazzo della propria abitazione, l’Inps le aveva ulteriormente ridotto la pensione. Il 27 marzo un imbianchino di 49 anni si è gettato dal balcone a Trani, non sopportando lo stato di disoccupazione che si portava dietro da tempo. All’indomani, a Bologna, un imprenditore edile, anni 58, si è dato fuoco davanti all’Agenzia delle Entrate. Non muore ma finisce in ospedale in condizioni gravissime. “Un fatto gravissimo, sintomo di una grande esasperazione che imbriglia i lavoratori più deboli e spesso soli con i loro problemi”. Così commenta il fatto il Segretario confederale della Cgil, Vincenzo Scudiere. Già, un’esasperazione generalizzata, un male sociale che colpisce giovani e meno giovani, indiscriminatamente e crudelmente. Un disagio purtroppo sottovalutato, nonostante le belle parole che i nostri governanti ci regalano per esprimere il loro cordoglio. Ipocrisia e indifferenza. Il vento gelido della noncuranza fredda gli animi e congela il cuore.
Durkheim, padre della sociologia funzionalista, ha visto nel suicidio un fatto prettamente sociale, determinato in prevalenza da variabili esterne (religione, famiglia, economia, politica). In un’ampia ricerca del 1897, intitolata Il suicidio. Studio di sociologia, mette in evidenza come esso sia un’azione solo apparentemente soggettiva. In realtà, la vera forza motrice del gesto è di natura sociale e va ricondotta soprattutto a una diminuzione del potere coesivo della società e a una frantumazione dei valori al suo interno. Tra le diverse tipologie di suicidio studiate, emblematico è il suicidio anomico, oggetto di successivi studi e approfondimenti. Anche se il termine anomia viene legato al nome di Durkheim, è in realtà assai antico e si rintraccia già in Senofonte (427 a.C.) che riteneva la legalità fondamentale per l’ordine sociale. Letteralmente, infatti, “anomia” vuol dire “assenza di norme” e Durkheim, in opposizione a Jean-Marie Guyau, ne sottolinea la negatività, il carattere di potenziale minaccia per l’ordine sociale costituito. L’anomia, intesa in senso durkheimiano, indica non solo uno stato di assenza di norme sociali ma una mancanza di regolazione morale. L’individuo dipende totalmente dalla società e ha fortemente bisogno dell’azione regolatrice che quest’ultima esercita sui suoi istinti disordinati. Per Durkheim “le deliberazioni umane, quali le raggiunge la coscienza riflessiva, sono spesso mera forma, senza altro oggetto che di corroborare una risoluzione già presa per motivi che la coscienza ignora”. I motivi che la nostra coscienza ignora sono rappresentati dalla società e dal suo potere di integrazione che non è costante ma varia a seconda del contesto e del periodo storico. La società ha la funzione di creare coesione e di regolare le azioni e le passioni individuali: “La società non è soltanto una cosa che attrae a sé con ineguale intensità i sentimenti e l’attività degli individui, ma è anche un potere che li regola”. Quando questo potere si indebolisce, viene meno anche la forza coesiva della società e subentra uno stato anomico che Durkheim considera all’origine del fenomeno del suicidio.
Il suicidio anomico è studiato in correlazione alle crisi economiche. Basandosi su molteplici dati statistici, egli notò un forte aumento del fenomeno nei momenti di crisi, intendendo però per "crisi" non solo i momenti di recessione ma anche quelli di eccessiva prosperità. In quest’ultimo caso, infatti, la società perde la propria forza e non riesce più a indicare i limiti oltre i quali non è lecito spingersi. Gli individui, così, credono possibile il raggiungimento di qualsiasi meta e, non sapendo autoregolarsi come fanno gli animali, vanno alla ricerca infinita di nuovi obiettivi che li lasceranno insoddisfatti e in uno stato di anomia cronica: “La passione dell’infinito viene quotidianamente presentata come un segno di distinzione mentre non può verificarsi che in seno a coscienze sregolate che erigono a norma la sregolatezza di cui soffrono”.
La sregolatezza di cui parla l’autore dilaga sia nei momenti di estrema agiatezza economica sia nei momenti di crisi. E oggi, in una situazione di endemica crisi economica, siamo costretti a constatare come la dispersione morale e la mancanza di certezze e di regole stia prendendo il sopravvento sull’equilibrio e la forza individuale: “Se…le crisi industriali o finanziarie aumentano i suicidi non è perché impoveriscono, giacché le crisi di prosperità hanno lo stesso risultato, ma perché sono crisi, cioè delle perturbazioni dell’ordine collettivo”. Mancanza di norme e di certezze. Nessuna bussola per orientarsi in questo disordine, in cui ci si sente persi e inghiottiti dalla solitudine. La società non appare più in grado di svolgere la funzione moderatrice di cui parla Durkheim, anzi sta sempre di più perdendo quel ruolo vitale di “potere morale superiore di cui l’individuo accetta l’autorità”. E la metafora tragica viene a essere il gesto estremo di un giovane, Norman Zarcone, il ventisettenne dottorando di ricerca in “Filosofia del linguaggio” che il 13 settembre 2010 si è lanciato dal settimo piano della facoltà di Lettere e Filosofia a Palermo. Aveva conseguito due lauree e sognava di diventare professore. Un sogno che si è reso ben presto conto sarebbe rimasto tale. Dure le parole del padre, all’indomani della tragedia: “Il suo gesto lo considero un omicidio di Stato. - dichiara - Era molto depresso per il suo futuro, si era laureato in Filosofia della conoscenza e della comunicazione, con 110 e lode. A dicembre si sarebbe concluso il dottorato di ricerca della durata di tre anni svolto senza alcuna borsa di studio. I docenti ai quali si era rivolto gli avevano detto che non avrebbe avuto futuro nell'ateneo. E io sono certo che saranno favoriti i soliti raccomandati”. Raccomandazioni, nepotismo, corruzione, questo è il cancro dell’Italia che nessuna pseudo riforma riuscirà a debellare. Semplicemente perché non si vuole debellarlo. Semplicemente perché chi è al vertice resta attaccato come una sanguisuga ai propri privilegi e vuole mandare avanti i propri figli, nipoti, conoscenti. Non importa se imbecilli o incapaci. L’importante è sistemarli. Chi ha dedicato il proprio tempo allo studio e alla crescita professionale, con serietà e impegno, ma non ha amici o parenti ammanicati, rimane tagliato fuori. Ed è un soggetto a rischio, sempre più solo e amareggiato, incatenato ai meccanismi di una società che non è più madre amorevole, capace di guidare ed educare i suoi figli, ma matrigna, crudele ed egoista dispensatrice di privilegi a una ristretta cerchia di “mostri” che essa stessa ha generato.
I sensi sono lo strumento di mediazione tra noi e l'universo in cui viviamo. Gli occhi ci permettono di vedere oggetti, forme, colori. Attraverso il tatto possiamo sentire la morbidezza, la ruvidità, il calore. L’olfatto ci consente di percepire odori. Il gusto di assaporare le cose. Sono una specie di estensione del corpo, degli utensili preziosissimi che ci mantengono connessi con la realtà. Potremmo parlare dei cinque sensi come di una finestra meravigliosa che offre una sconfinata veduta su un paesaggio meraviglioso, il nostro mondo. Nella sua interezza e in ogni suo dettaglio. Almeno questo è quello che tutti crediamo.
L’errore che gli uomini commettono è quello di ritenere la realtà effettiva sotto il loro totale controllo. E questo in virtù di un preteso dominio della conoscenza, radicato nella nostra natura. Crediamo di sapere tutto e di poter, in ragione del possesso del sapere, fronteggiare l’esperienza esterna. Ma siamo davvero sicuri che la realtà esterna sia tale quale noi la percepiamo? Non è detto, infatti, che ciò che appare sia ciò che effettivamente è. Siamo sicuri che la materia percepita dai sensi e poi elaborata dal nostro cervello sia quella che crediamo di conoscere?
L’uomo, sin dai primordi, si è sempre interrogato sulla natura delle cose. Non è un caso che la gnoseologia, ossia la teoria della conoscenza, sia una delle branche più estese della filosofia. Kant alla fine del Settecento elaborò una dottrina gnoseologica per certi versi rivoluzionaria, ponendo i fondamenti di una nuova epistemologia che desse sostegno al filone scientifico galileiano-newtoniano. In quella che egli stesso definì "una Rivoluzione copernicana in filosofia" capovolse i rapporti tra il soggetto conoscente e l’oggetto. Secondo il filosofo di Konigsberg, non è l’uomo ad adattarsi passivamente all’oggetto nel processo conoscitivo ma è l’oggetto a modellarsi sulle sue strutture conoscitive. La realtà si plasma e si adatta alle forme a priori attraverso cui noi la percepiamo.
E’ nota la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno. Il fenomeno è l’unica realtà conoscibile per l’uomo, ma essa non è il noumeno, ossia la realtà in sé. Ciò non vuol dire, dice Kant, che ciò che ci appare, ossia il mondo fenomenico, sia un’illusione, una mera parvenza. Il fenomeno può essere definito, con tutta certezza, un oggetto reale, ma può essere considerato tale solo in relazione al soggetto conoscente. E' come se noi sapessimo di indossare, sin dalla nascita, delle lenti di color azzurro. In tal caso, pur essendo consapevoli che il mondo circostante non è realmente azzurro, potremmo asserire con tutta certezza che per noi lo è. E per noi sarà sempre azzurro, dalla nascita alla morte, anche se poi sappiamo che la realtà in sé, ossia la realtà considerata indipendentemente dalle nostre forme a priori che la filtrano, è diversa ed è per noi inconoscibile.
L’io penso kantiano è il fondamento non solo della natura ma anche della disciplina scientifica che la studia, tant’è che il filosofo definisce l’io "il legislatore della natura": gli oggetti esterni, ovviamente, non vengono creati dalla mente ma sono, per così dire, sintonizzati con le nostre modalità conoscitive. Possiamo conoscerli sul piano fenomenico, ma non possiamo carpirne l'essenza.
Schopenhauer si spinse ancora oltre e arrivò ad affermare che la realtà è sogno, è ciò che gli antichi indiani chiamavano “velo di Maya”. Celebre, a questo proposito, il passo che riprese dagli antichi testi dei Veda e dei Purana “E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista , né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente”. I Veda, infatti, consideravano l’esistenza come una specie di illusione ottica. Già Platone, nell’antica Grecia, aveva affermato che “gli uomini non vivono che in un sogno”. Pindaro disse che “l’uomo è il sogno di un’ombra”. Infine, Shakespeare: “noi siamo di tale stoffa, come quella di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è chiusa in un sonno”.
Al di là della visione della vita come sogno e illusione, è comunque plausibile l’ipotesi che la realtà non sia quella che tutti i giorni constatiamo empiricamente. Se fossimo sprovvisti dei nostri sensi e delle nostre strutture conoscitive, non potremmo percepire la realtà esterna oppure essa apparirebbe completamente diversa. Alcuni animali, ad esempio i cani, percepiscono il mondo in bianco e nero; altri, come i pipistrelli, hanno scarse capacità visive e si orientano nello spazio emettendo ultrasuoni che, rimbalzando contro gli oggetti, fanno sì che possano “mappare” l’ambiente come avessero incorporati dei radar biologici. Noi esseri umani, invece, siamo stati predisposti a percepire le cose in una certa forma ed estensione e a percepire il mondo come un insieme di colori. Ma la materia reale, l’oggetto noumenico, è totalmente diverso ed è al di là di ogni immaginazione e pretesa conoscitiva.
Il Presidente del Consiglio Mario Monti i giorni scorsiha infranto ogni tabù e ha parlato del capitalismo europeo e della sua crisi incombente proprio a Pechino, da sempre simbolo e culla del comunismo. “Vengono un po’ i brividi a dirlo nella scuola del partito comunista cinese, ma ormai siamo tutti liberi da pregiudizi ideologici. Credo che il sistema capitalistico abbia molti punti di vantaggio rispetto al sistema comunista ma da quando è diventato sistema dominante si è rilassato e ha visto troppo predominio del capitale e dell’impresa sul lavoro e sui poteri pubblici”. Capitalismo, discorso vecchio e pure sempre attuale. Se ne è sempre parlato, tra ideologia e scienza, utopia e realtà. Si è sempre cercato di darne una spiegazione scientifica, di individuarne le dinamiche e, soprattutto, di determinare la natura dei suoi influssi sulla vita sociale.
Il pensiero di Marx ha esercitato, senza dubbio, una profonda influenza sul modo di guardare questo fenomeno. Se lo si vuole analizzare, infatti, dal punto di vista marxistasi dovrà porre l’accento sul fattore economico, come elemento esclusivo di spiegazione dell’origine e della diffusione di questo specifico evento storico. Ma diverse sono state le chiavi di lettura del capitalismo. Ad esempio, Max Weber, economista e sociologo tedesco, con i due famosi saggi del 1904 e 1905 pubblicati con il titolo L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, ne ha dato un’interpretazione diversa. A una lettura superficiale e sommaria dell’opera si potrebbe intendere che l’autore ritenga il protestantesimo, e in particolare il calvinismo, all'origine del capitalismo moderno. In realtà, Weber sottolinea più volte che un fenomeno specifico non può essere originato unicamente e direttamente da un solo fattore. La sua convinzione è che vi sia un’interdipendenza di fattori economici e culturali alla base del capitalismo che si influenzano reciprocamente. Ciò non destituisce di fondamento la concezione marxista ma ne mette in luce l’unilateralità e la parzialità. Marx, infatti, riconduceva alla distribuzione della ricchezza e della proprietà (quindi alla sola causa economica) l’origine della stratificazione sociale tipica della modernità. La stratificazione è prodotta, invece, secondo la visione weberiana, dalla normale tendenza presente in ogni individuo ad aggregarsi in gruppi separati, ad esempio vi sono persone che fanno lo stesso lavoro o coloro che condividono una passione o un hobby oppure coloro che abbracciano la stessa fede religiosa. Alla base egli individua tre fattori significativamente intrecciati tra loro: economia, potere e cultura. Gli individui cioè si riuniscono perché spinti dagli stessi interessi economici o dalla ricerca del potere oppure per un fatto culturale. Per questo Weber parla di stratificazione tripartita: stratificazione per classe sociale (ossia su base economica), per appartenenza politica (basata sul potere), e per ceto (fondata sulla cultura), che si influenzano reciprocamente, per cui l’appartenenza a un gruppo culturale può influenzare la posizione economica o viceversa. Ad esempio nell’opera L'etica protestante e lo spirito del capitalismo mette in relazione religione e capitalismo mostrando come la mentalità calvinista sia stata la pre-condizione culturale al formarsi della mentalità economica tipica del capitalismo. I protestanti calvinisti, infatti, credevano nella dottrina della predestinazione secondo la quale le opere e le azioni del fedele non garantiscono la salvezza perché solo Dio decide chi vi è destinato. Di qui lo stato di paralizzante impotenza del fedele che non può far nulla per guadagnarsi la beatitudine eterna. La reazione psicologica più comune fu, dunque, quella di impegnarsi nella ricerca del successo in terra attraverso il lavoro per dimostrare che la riuscita economica era un segno della loro predestinazione. Ciò dimostra, secondo Weber, come il fattore culturale possa determinare la condizione economica, produrre divisioni sociali e influire persino sul potere.
L’obiettivo di Weber è rilevare un’affinità profonda tra etica protestante e spirito del capitalismo e individuare l’insieme di elementi che, in virtù del loro particolare assemblaggio, hanno determinato un fenomeno storicamente specifico. Il capitalismo moderno, infatti, così come lo conosciamo, non sarebbe mai potuto sorgere in altre epoche storiche. Certo, forme capitalistiche ci sono state anche in altre società, ma questa tipologia specifica si riscontra solo nell’Occidente moderno. Tra i vari fattori che in una certa epoca storica ne hanno reso possibile la nascita troviamo: il lavoro formalmente libero, l’organizzazione razionale dell’impresa finalizzata al guadagno, la separazione dell’amministrazione domestica dall’azienda, la tenuta razionale dei libri contabili. E ovviamente anche l’incremento delle possibilità tecniche. Ma l’eccessiva enfasi su quest’ultimo aspetto finirebbe per rendere risolutiva la spiegazione marxista, cui Weber riconosce piena legittimità, ma che considera unilaterale e incompleta. E’ un complesso intreccio di fattori ad aver delineato il capitalismo come fenomeno specificamente moderno. Ma, soprattutto, il capitalismo non avrebbe mai trovato terreno fertile se non vi fossero stati dei presupposti culturali atti a renderlo fecondo. E Weber individua tali presupposti proprio nell’etica protestante e nella dottrina della predestinazione che comporta l’inutilità dell’azione umana per la conquista della grazia divina. Di qui l’importanza del lavoro e del guadagno assunto come segno distintivo dello status di prescelto. Non è un caso che Weber riporti alcune citazioni di Benjamin Franklin per sottolineare come il denaro sia assurto a simbolo della cultura capitalistica e calvinista: “Ricordati che il tempo è denaro; ricordati che il credito è denaro; ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo; ricordati che chi paga puntualmente è padrone della borsa di ciascuno”.
Così scrive Paul Ricoeur, filosofo francese, nell’opera “Dell’interpretazione, saggio su Freud” del 1965: “Se risaliamo alla loro intenzione comune, troviamo in essa la decisione di considerare innanzitutto la coscienza nel suo insieme come coscienza “falsa”. Con ciò essi riprendono, ognuno in un diverso registro, il problema del dubbio cartesiano, ma lo portano nel cuore stesso della fortezza cartesiana. Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a se stessa; in essa, senso e coscienza del senso coincidono; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del dubbio sulla coscienza”. Un'interpretazione che destituisce di ogni fondamento la scienza di origine cartesiana.
Il filosofo cartesiano dubita di ogni cosa ma ha una certezza indistruttibile che si radica nel cogito, nella coscienza. Noi possiamo dubitare di tutto, tranne che del nostro pensiero e, quindi, della nostra esistenza. Ecco, questa tradizione di pensiero viene demolita dal pensiero di Marx, Nietzsche e Freud, che Ricoeur chiama “Maestri del Sospetto”, perché hanno “sospettato” che dietro le cosiddette "certezze" (come la Coscienza, il Vero, il Bene) si celassero, occulte e inosservate, forze ben più potenti. Marx ha visto negli interessi economici la molla dell’agire storico, Freud ha scoperto l’Inconscio che inganna continuamente la stessa coscienza, Nietzsche ha descritto la Volontà di potenza come il peculiare modo di essere del superuomo, sorgente inesauribile di interpretazioni e significati attraverso la quale ricreiamo e reinventiamo la nostra vita. Ecco un passo di Così parò Zarathustra: “E la vita stessa mi ha confidato questo segreto. Vedi, - disse, - io sono il continuo, necessario superamento di me stessa”. E poi ancora: “mille sentieri vi sono ancora non percorsi; mille salvezze e isole nascoste della vita. Inesaurito e non scoperto è ancora sempre l’uomo e la terra dell’uomo”.
Ricoeur parla dei tre maestri del sospetto come di grandi “distruttori” e afferma che “tutti e tre liberano l’orizzonte per una parola più autentica, per un nuovo regno della Verità, non solo per il tramite di una critica “distruggitrice”, ma mediante l’invenzione di un’arte di interpretare. Cartesio trionfa del dubbio sulla cosa con l’evidenza della coscienza; del dubbio sulla coscienza essi trionfano per mezzo di una esegesi del senso. A partire da loro, la comprensione è una ermeneutica; cercare il senso non consiste più d’ora in poi nel compitare la coscienza del senso, ma nelladecifrazione delle espressioni”. Essi fondano una nuova arte dell’interpretazione, dove l’obiettivo di Marx è “liberare la praxis…liberazione inseparabile da una presa di coscienza che replichi vittoriosamente alle mistificazioni della falsa coscienza”, quello di Freud è far sì che “l’analizzato, appropriandosi del senso che gli era estraneo, allarghi il proprio campo di coscienza”, mentre Nietzsche aspira all’ “aumento della volontà di potenza…ma quel che vuol dire volontà di potenza deve essere recuperato dalla meditazione delle cifre del superuomo, dell’eterno ritorno e di Dioniso”. Nuovi significati, dunque, nuovi orizzonti da esplorare, dove le certezze acquisite vacillano e appaiono in tutta la loro fragilità.